sabato 8 marzo 2008

Fragilità redente

Carissimi,
desidero condividere anche con voi alcuni pensieri che mi sono passati per la testa leggendo la lettera pastorale di Padre Aldo Sarotto, Superiore Generale del Cottolengo.
Credo che sia un tema alquanto significativo su cui potremmo fare un bel cammino sia personale che comunitario. Sento che possa far del bene non solo ai Religiosi come me, ma a tutti i Cristiani. Sì, siamo fragili e quindi fallibili, facilmente portati a commettere errori ed anche peccati, spesso in preda allo scoraggiamento di fronte ai nostri fallimenti.
Ma è bello pensare che anche Cristo non era un superuomo, sempre all’altezza della situazione e padrone del proprio futuro e delle proprie emozioni: quanto consolante per noi peccatori sentire che Gesù perde anche la pazienza e se la prende con “questa generazione perversa” che è sempre alla ricerca di segni straordinari. Che bello vederlo perdere il controllo e ribaltare i banchi dei cambiavalute nel tempio, o sentirlo che si lamenta dicendo: “vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete cantato”. E’ per me molto consolante contemplare Gesù che piange su Gerusalemme. Il Figlio di Dio poi non è stato neppure capace di scegliersi 12 apostoli perfetti: li ha chiamati anche se molto gelosi gli uni verso gli altri, assai arrivisti e presuntuosi; anche un ladro e traditore ha fatto parte del gruppo dei prescelti.
Poi il mistero del rifiuto da parte dei contemporanei che prima non lo accolgono a Nazareth e poi, dimenticando anni di impegno speso a predicare, a guarire, a fare del bene a tutti, lo condannano alla morte più vergognosa. Quanta fragilità in Gesù, che anche in questo diventa nostro modello e nostro incoraggiamento.
La meditazione sulla divina debolezza di Cristo ci aiuta ad accettare meglio quella umana.
Tutti i giorni siamo a contatto con la precarietà che è propria di chi è povero o malato. Quante volte abbiamo visto morire una ragazza di 20 anni consumata dall’AIDS e non siamo stati capaci di fare nulla per lei. Quante volte ci siamo sentiti complici di un mondo ingiusto in cui certi bambini devono morire di malattie curabilissime solo per la sfortuna di essere nati nell’emisfero sbagliato. Quante volte non abbiamo avuto parole davanti ad un giovane che non poteva pagarsi la dialisi e stava morendo di insufficienza renale. Questa è la fragilità propria dell’uomo povero: di quello povero di salute come di quello povero di soldi.
Ma poi sempre di più ci rendiamo conto della condizione di debolezza che è propria della natura umana in genere: pensiamo anche solo al Kenya in questo momento. Nessuno avrebbe potuto immaginare una crisi del genere in un Paese che era considerato la testa di ponte dell’Occidente in Africa, l’isola democratica in una regione particolarmente instabile come il Corno d’Africa, l’esempio di stabilità politica e di interculturalità in una regione di continui conflitti etnici. Eppure è bastato un giorno per trasformare questa Nazione in un campo di battaglia: persone che per anni sono vissuti nello stesso villaggio hanno scoperto l’odio tribale ed hanno iniziato a incendiare, uccidere, razziare. Si sono dimenticate in un attimo parole importanti come per esempio pace, fratellanza, per iniziare a parlare di pulizia etnica, o di rivendicazione di diritti atavici sulla terra. Quanta fragilità nella natura umana, che non riesce mai ad imparare dalla storia: come ha potuto il Kenya che per anni ha cercato di negoziare la pace in Sud Sudan, in Somalia, nel Nord dell’Uganda, in Eritrea, abbracciare poi la peggiore forma di guerra civile, e cioè l’epurazione dell’etnia rivale e gli stupri di massa? Proprio qui dove da anni abbiamo sterminati campi profughi dalle guerre confinanti (Somalia e Sud Sudan sopratutto) ora abbiamo creato la necessità di nuovi centri di raccolta, questa volta per i kenyani stessi che hanno perso casa ed ogni cosa prima posseduta. Il Kenya che ha saputo accogliere rifugiati anche dal genocidio del Rwanda, ora ha più di 6000 cittadini che sono scappati parte in Uganda e parte in Tanzania per sfuggire ad un altro genocidio. La storia non è maestra di vita e si ripete sempre nei suoi aspetti peggiori, proprio perchè noi siamo dei “vasi screpolati” e sostanzialmente così deboli.
Ma sono soprattutto io che devo saper trovare la mia pace interiore nella consapevolezza di essere fragile, peccatore, inadeguato anche psicologicamente di fronte alle difficoltà della vita. Più mi sento indegno, e più ho bisogno della misericordia di Dio, del suo quotidiano perdono. Meno mi sento fragile e più corro il rischio di credermi “perfetto” e quindi non più bisognoso della misericordia di Dio. Meno mi sento peccatore e più ho la tendenza a giudicare gli altri, a parlare male di loro, a creare storie più o meno maliziose nei loro confronti.
Sì, io sono davvero fragile in tutti i sensi, ma di questo ringrazio il Signore e gli chiedo di mantenermi sempre così in modo da non montare in superbia e in modo da evitare il facile preconcetto che peccatori e “poco di buono” sono sempre e solo gli altri.
“Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze” perchè sono esse a ricordarmi che chi fa tutto in me è la Divina Provvidenza e che, senza l’aiuto di Dio e la sua misericordia potrei essere anche io in questo momento con un machete in mano a cercare di uccidere qualche persona, per il semplice fatto che non la pensa come me; oppure potrei essere su un marciapiede a prostituirmi o potrei essere in carcere per droga.
Quello che sono e che cerco di diventare con fatica e con tanti sbagli è certamente il frutto del lavorio continuo della grazia che mi aiuta a capire che sono proprio i “rottami” che nelle mani di Dio possono arrivare ad ottenere “grandi cose” ed alti ideali.

Fr Beppe Gaido
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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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