lunedì 1 gennaio 2007

Informazioni Volontariato a Chaaria (Kenya)


Il volontariato a Chaaria ha ormai una lunga storia che comincia nei primi anni ’90 quando un gruppo di dentisti dava vita all’ambulatorio odontoiatrico del dispensario, mentre alcuni volontari iniziavano esperienze più o meno lunghe presso i Buoni Figli.

Degna di nota è la presenza di un volontario che è rimasto con noi per tre anni, a cavallo tra il 1988 ed il 1991.

Per molti anni la disponibilità dei volontari è stata piuttosto sporadica e limitata al solo periodo estivo.

La “rivoluzione copernicana” è avvenuta a partire dal luglio del 2000, quando è iniziata l’esperienza del volontariato su larga scala, con gruppi di persone che si sarebbero alternate durante tutto l’anno.

La nuova impostazione organizzativa del volontariato ha coinciso con il riconoscimento dell’ospedale, e con il crescere continuo del numero di pazienti e dei servizi da noi offerti.

Il servizio volontario a Chaaria si è sempre più caratterizzato come “sanitario”, anche se non sono mancate le esperienze positive di alcune persone rivolte ad altri settori della missione: attività educativa dai Buoni Figli, manutenzione varia, costruzione di nuove strutture edilizie, impianti elettrici, ecc...

Nello specifico sanitario il volontariato si è diversificato molto, limitandosi inizialmente all’odontoiatria ed espandendosi successivamente ad altre specialità sia mediche che chirurgiche.

Finora i volontari infermieri sono stati i più numerosi e per un certo periodo abbiamo avuto anche allievi infermieri della scuola Cottolengo, mentre i medici purtroppo sono sempre stati in minoranza.

A Chaaria inoltre, sono state redatte otto tesi di laurea in scienze infermieristiche ed una in medicina e chirurgia.

Dopo sei anni credo sia possibile tentare una semplice analisi dell’esperienza vissuta finora, parlando apertamente e liberamente sia degli aspetti positivi che di quelli negativi e problematici.

Inizio tracciando un bilancio ampiamente positivo del volontariato internazionale a Chaaria, constatando che normalmente i volontari sono bravissime persone che si offrono cariche di entusiasmo, spirito di servizio e capacità di adattamento.

Non sono mancate però le persone che hanno creato dei problemi, persone anche brave nello svolgere il proprio lavoro ma eccessivamente critiche nei confronti dell’attività ospedaliera e del personale locale, indifferenti alla vita di comunità e alle persone che la formano; posso asserire però che si tratta di una percentuale nel complesso molto bassa.

Vorrei cominciare ad analizzare gli elementi positivi del volontariato a Chaaria, partendo dalla considerazione che dai volontari si è imparato molto, dall’ecografia ai tagli cesarei, rivelandosi così una presenza significativa e molto utile per la progressione del nostro servizio.

Le cose insegnateci sono senza dubbio una dimensione centrale, in quanto l’ospedale di Chaaria si è diversificato grazie a ciò che abbiamo appreso dai volontari.

Per alcuni questa dimensione formativa è stata piuttosto chiara, edificante e motivo di gioia nel constatare che dopo il loro passaggio qualcosa di nuovo stava cominciando.

Il volontario è inoltre un portatore di freschezza ed entusiasmo nella continuazione del nostro lavoro. Troppo spesso la routine ci può rendere cinici, incapaci di condividere fino in fondo il dolore altrui. Diventiamo freddi, come paralizzati nei sentimenti dal contatto troppo continuo con la sofferenza e con la morte.

Corriamo il rischio di voler dare a tutti lo stesso livello di attenzione, perchè abbiamo paura di coinvolgerci troppo con alcune persone che poi dovremo lasciare, o perchè muoiono o perchè guariscono e se ne vanno.

I volontari invece sanno dare importanza alle piccole cose: ad un sorriso, ad una delicatezza verso i pazienti...Essi diventano un silenzioso richiamo a non lasciarci travolgere dal rullo compressore del quotidiano che rischia di trasformarci in “macchine operatrici” senza sentimenti e senza vero coinvolgimento. Sanno piangere davanti ad un bimbo che muore di malaria o di fronte ad una piccolina che viene consumata dall’AIDS...e con queste lacrime, quasi impercettibilmente, mettono un freno al nostro continuo correre che ci porterebbe a dire: “Ma quante storie! Non c’è tempo per piangere per i morti, bisogna lavorare per chi è ancora vivo!”.

I volontari sono anche la nostra “cassa di risonanza” e molto spesso lavorano per noi in Italia più di quanto non potessero fare quando erano qui in Kenya.

Alcuni cooperano nell’apportare forze nuove per il sevizio a Chaaria; è infatti il fenomeno del “passa-parola” che ci consente di accogliere nuovi collaboratori.

Altri poi organizzano raccolte fondi, concerti, attività parrocchiali...che contribuiscono grandemente al nostro budget. Ritengo quindi opportuno sottolineare come grazie all’impegno dei volontari si sono potuti realizzare il libro “sawa sawa” ed il calendario e, senza voler adulare questa attività di raccolta fondi, credo sia giusto comunicarvi che circa il 35-40% delle nostre entrate, provengono dalle varie iniziative degli amici e dell’Associazione.

Dopo gli elementi positivi e costruttivi del volontariato, credo sia giunto il momento di segnalare alcune problematiche verificatesi nel corso degli anni, al fine di tentare un miglioramento.

Personalmente quello che sento molto è che sempre più giovani sono alla ricerca di “esperienze” e non tanto relazioni e servizi di aiuto continuativi nel tempo.

Sempre più frequente è l’incontro con volontari che si esprimono dicendo: “Chaaria è stata una bella esperienza ma siccome ormai conosco questa realtà, l’anno prossimo proverò ad andare altrove”.

Alcuni rinunciano senza problemi a certi tipi di servizio perchè “non pertinenti con l’esperienza che si erano prefissati”.

Altri ancora rifiutano di rimanere nello stesso posto in ospedale (p.es.le medicazioni...) per più di una settimana poiché desiderosi di operare in più settori, con il risultato che non diventano autosufficienti da nessuna parte. Permettetemi di insistere su questo punto analizzando quella che potremmo chiamare la “perdita di tempo calcolata”: per un infermiere e per un medico di medicina generale, sono necessari molti giorni per l’adattamento iniziale in quanto si deve far entrare il volontario in un concetto differente di cultura, di modo di lavorare, di carenza di mezzi e di farmaci, di limitata disponibilità di denaro sia dei pazienti che dell’ospedale stesso. È chiaro quindi che qualcuno dovrà spiegare questi concetti, mentre il volontario dovrà ascoltare, capire e provare. Il volontario dovrà capire gradualmente che la disponibilità di infermieri locali è sempre scarsa rispetto ai bisogni, perché non abbiamo soldi per pagare più persone. Nonostante tale carenza strutturale, succederà comunque che l’infermiere kenyano seguirà il volontario italiano fino a quando lo stesso non si riterrà indipendente nel suo tipo di servizio. Ma, se una volta raggiunto un certo grado di autosufficienza il volontario cambierà il proprio lavoro perchè ormai “quello l’ho già fatto!”, la “perdita di tempo calcolata” duplica, triplica...e forse perde il suo significato.

Normalmente ci vogliono circa due settimane prima che un volontario cominci a familiarizzare con l’andamento caotico dell’ospedale, a ricordare la collocazione del necessario per svolgere il servizio, a comprendere le cattive grafie sulle cartelle e il significato delle molte abbrevazioni. Se poi un volontario, che starà con noi tre settimane, dice che non tornerà in futuro perchè ha il desiderio di fare esperienze altrove, nel mio cuore nasce come un blocco: perchè dovrei lasciarmi coinvolgere psicologicamente e in termini di tempo se questa persona mi ha già confidato di non voler più tornare?

Certo è difficile tornare. Questo dipende da molti fattori, non ultimo quello economico. Però un volontario che desidera venire ancora (anche se poi il futuro è nelle mani di Dio) è senza dubbio un aiuto molto più significativo di tutte quelle esperienze “una tantum” che ci portano a contatto con tanta gente passegera nella nostra vita e che poi sparirà per sempre. Altro aspetto importante è il fattore tempo. In questo periodo abbiamo con noi Andrea per un anno e Daniele per sei mesi. Questo significa che essi diventano molto importanti per noi; fanno realmente parte dello staff e a loro affidiamo responsabilità sempre più gravose. Un volontario che si ferma qui per tre settimane, normalmente ci lascia proprio quando comincia ad essere utile!

Ecco perchè credo che sia importante l’attivazione dell’esperienza dei “Caschi Bianchi” a Chaaria.

Detto questo, desidererei ora sottolineare alcune caratteristiche a mio avviso necessarie per tutte le persone che vorrebbero fare o hanno fatto volontariato da noi.

1. SENSO DI ADATTAMENTO: sappiamo tutti che un ospedale rurale in Africa non può essere ben organizzato come un moderno ospedale italiano.

La struttura qui potrebbe essere paragonata ad un enorme reparto contenente 140 posti letto, divisi tra specialità molto diverse tra loro.

A tutto questo si aggiunge il flusso continuo e in progressivo aumento negli ultimi tempi, di pazienti ambulatoriali.

Inoltre come ho già detto, lo staff locale è molto ridotto rispetto agli standard italiani, per cui a volte non riusciamo a seguire il singolo paziente come invece si potrebbe fare in Italia.

Oltre alle ore lavorative, il senso di adattamento è necessario che si estenda anche nelle ore di tempo libero o di relax personale, tenendo conto e non dimenticando, di essere ospiti in una missione che vive comunitariamente secondo orari e regole più o meno precisi.

A Chaaria non ci sono stanze con bagno o stanze matrimoniali. Il cibo, pur essendo abbondante, non è sempre preparato con i canoni culinari che potremmo aspettarci in un hotel (la pasta ed il riso sono spesso scotti, soprattutto se si arriva tardi dall’ospedale; il menù è più o meno fisso e si ripete ogni settimana. Personalmente trovo pesante il giudizio continuamente negativo e le reazioni di disappunto di chi spesso mi mangia di fronte. Durante il fine settimana, secondo le disponibilità della comunità e le esigenze di servizio, è possibile organizzare qualche uscita. Le gite che proponiamo quasi sempre ci portano in altre missioni, non certo in “resorts” turistici con piscina, ma permettono di farsi un’idea della vita degli africani in luoghi anche lontani da Chaaria e di rendersi conto del lavoro dei missionari sul territorio.

L’ organizzazione di viaggi per più di un giorno è lasciata totalmente a carico dei volontari a cui è possibile consigliare un’agenzia turistica a Nairobi.

2. SPIRITO COMUNITARIO: è importante che i volontari cerchino di creare buoni rapporti anche con i giovani Fratelli Africani che spesso si sentono esclusi. Una delle cause di questa mancanza di integrazione può essere la barriera linguistica. È necessario che i volontari si rendano conto che discutere a tavola in italiano (magari alzando la voce), rende complesso sia l’intervento dei Fratelli che non hanno ancora una chiara conoscenza della nostra lingua, che la quiete necessaria per lasciare gli altri Fratelli liberi di parlare d’altro. Questi inconvenienti avvengono soprattutto quando i volontari approdano a Chaaria in gruppi grossi e strutturati.

Se poi all’interno del gruppo si presentano delle tensioni ideologiche (destra/sinistra, Berlusconi/Prodi, credenti/anti-clericali...), la miscela diventa esplosiva ed il momento dei pasti perde la sua connotazione conviviale trasformandosi in una quotidiana baruffa da bar su temi peraltro scontati e astratti. Sembra cosa da poco ma vivere il proprio tempo libero (che è poco!) in continua tensione, può diventare pesante e tramutare i momenti da cercare in momenti da evitare!

3. UMILTA’ sia nel servizio che nel giudizio globale della realtà africana.

Nel servizio, pur essendo molto bello che i volontari ci portino ad un continuo miglioramento, è necessario fare appello alla pazienza personale per accettare che i cambiamenti suggeriti avvengano per piccoli passi. A volte è necessaria una rivoluzione mentale per il nostro personale che è stato formato con altri criteri, soprattutto se consideriamo che un Africano non riesce per natura a cambiare le proprie abitudini da un giorno all’altro.

Nel giudizio globale sull’Africa invece, credo che valga quanto ci ha detto un vecchio missionario: “Per i primi tre anni osserva e basta...se vuoi veramente tentare di capire. Dopo puoi cominciare ad esprimere qualche umile parere.”

4. COMPRENSIONE: noi Fratelli siamo sempre in vetrina in quanto viviamo 24 ore al giorno con i volontari. A volte è difficile per noi adattarci a personalità completamente diverse che si alternano nella nostra comunità a velocità alquanto elevata. Passiamo da persone pacate ad altre molto esuberanti; da gente che ha bisogno di solitudine ad altri che preferirebbero stare sempre in gruppo e via dicendo...

Non sempre è facile passare da un chirurgo che richiede tutto il nostro sforzo per migliorare la sterilità, ed un pediatra che invece ritiene che l’ospedale si debba concentrare soprattutto sulle pappette e sulle soluzioni reidratanti.

In ultimo dico che non possiamo essere sempre al meglio: a volte anche noi attraversiamo momenti difficili ed è imbarazzante quando il volontario ti vede in tale stato, perchè si porterà in Italia un’impressione negativa di te, l’idea di una persona triste.

5. FORMAZIONE : L’Associazione Mission Hospital Chaaria propone corsi di formazione con una cadenza ormai continua e costante.

I volontari aderiscono in modo entuasiasta iscrivendosi ai vari corsi, ma poi non partecipano alle lezioni programmate.

Questo atteggiamento va corretto, soprattutto perché la formazione è importante per migliorare la qualità di metodo e quindi poter operare con maggior efficacia.

Inoltre non dev’essere tralasciata la formazione personale sullo spirito ed il carisma cottolenghino.

Sarebbe auspicabile una maggior frequentazione dell’ambiente della Piccola Casa a Torino o nelle sede dislocate su tutto il territorio nazionale italiano, per cercare di vivere e comprendere meglio lo spirito di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, e quindi sapere e imparare in pratica cosa s’intende per Carità e solidarietà.

Desidero concludere con una parola sul volontariato dai Buoni Figli che è senz’altro utile ma molto più complesso.

Parecchi volontari non si sono trovati bene in tale settore per diversi motivi. Credo che il più importante sia che tra lo staff dei Buoni Figli nessuno parla Italiano e questo può diventare difficile per chi non conosce l’Inglese. Altro aspetto complesso è che in tale tipo di servizio ci sono parecchie ore libere in cui il volontario può impegnarsi con varie attività di animazione (una partita a dama, suonare la chitarra, una partita a calcio...); se però non riuscisse ad organizzarsi in questo senso, potrebbe provare un senso di inutilità che è dannoso. Collaborare alla scuola speciale o alle attività occupazionali costituisce anch’esso un problema per molti: sono compiti ripetitivi e che richiedono molta pazienza. Credo di poter affermare che il volontariato dai Buoni Figli sia più complesso di quello in ospedale, in quanto richiede una discreta conoscenza dell’Inglese per la comunicazione con il personale, una scorta abbondante di pazienza per interagire con i ragazzi, e uno sviluppato senso del servizio condito da una buona dose di fantasia.

Termino questo lungo scritto sottolineando che il volontariato è una realtà molto bella e utile per Chaaria. Abbiamo bisogno dei volontari! Giudico l’esperienza di questi sei anni di volontariato positivamente, anche se, come in ogni situazione umana, ci sono stati dei problemi. Ritengo comunque che il volontariato sia qualcosa di dinamico e che anche gli elementi apparentemente negativi possano tramutarsi in punti di partenza per una revisione onesta e per un miglioramento futuro.

Mi auguro che il Signore ci aiuti a crescere per correggere quanto abbiamo sbagliato in questi anni e per sviluppare al massimo le potenzialità del volontariato che, a mio avviso non sono state ancora pienamente raggiunte.

Chaaria, 25-03-06

Fr.Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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