venerdì 23 gennaio 2009

Le donne... che monumento


Una mamma che ha perso la sua bambina, mi ha detto che io non potevo capire il suo dolore. Io le ho chiesto perché mi avesse detto quella frase dura. E lei, tornando a piangere disperata, mi ha urlato: “Perché Monica, la mia piccola, non ti è entrata nella pancia!”…

Per me quella frase è stata una legnata difficile da digerire, ma salutare: io non posso capire fino in fondo le mamme che mamma2.JPGperdono un bambino, perché questi per me sono solo pazienti, e non “carne della mia carne”. Essi fanno sì parte di me, ma in fondo io non ho sofferto per metterli al mondo, non ho speso notti insonni quando erano piccoli e non riuscivano a dormire, non ho fatto piani sul loro futuro…
E’ proprio vero che “un dolore che ti passa per la pancia” ha delle dimensioni difficili da comprendere dall’esterno. Devo accettare questo mio limite, ed allo stesso tempo impegnarmi sempre di più nella condivisione delle sofferenze altrui che pian piano vorrei far mie.
Mi rendo conto che la scelta di incontrare Dio negli ultimi, negli ammalati è una delle poche sicurezze che mi sono rimaste. O ricomincio sempre di lì, nella dedizione gratuita di un servizio quotidiano, o rischio di perdere in modo definitivo il senso di Dio e dell’uomo. O riparto da lì, con umiltà, accettando i miei limiti riscattati dall’amore che cerco di dare, o sono destinato a perdere la fede. Ma ce la farò. La vita che ci viene data proprio da coloro che sono i perdenti, che sono avvolti dal silenzio dei senza voce, una vita che, incarnata nell’umano, lo supera in ogni istante, è il nostro alimento quotidiano.
Ed in questo cammino verso Dio attraverso gli ultimi ed i sofferenti, sempre incontro sulla mia strada la figura gigantesca della donna africana.
Anche oggi questa mamma illetterata, che ha firmato il permesso di seppellire qui la sua Monica, apponendo l’impronta digitale del pollice destro, perchè non sapeva scrivere, è stata la mia maestra di vita. Con quell’urlo disperato, mi ha insegnato più di molte prediche dotte e piene di cultura.
Più vado avanti e più mi sembra che Shakespeare abbia commesso un errore quando ha scritto: “Woman, thy name is frailty” (donna, il tuo nome è fragilità).
Infatti, tantissime sono le figure femminili che mi hanno profondamente colpito negli anni della mia presenza qui a Chaaria. La donna africana è come un monumento di pazienza, di laboriosità e di fedeltà di cui non puoi che essere profondamente impressionato.
Il vero pilastro della società è la donna, che è quella che si alza al mattino prima di tutti, va a mungere la mucca quando è ancora buio, prepara la colazione per il consorte ed i figli ancora addormentati, accompagna i bambini a scuola e va nei campi con la “panga” a fare tutti i lavori necessari, torna a casa la sera a lavare la biancheria e preparano la cena al marito e ai piccoli.
Altro che fragile!... la donna africana è una roccia!

Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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