Silas bussa alla porta e mi dice: “Hai delle visite... Sono Bianchi”. Tra me penso che si tratti di qualche prete missionario che ha bisogno di un consulto medico. Mi avvio verso la sala di attesa e vedo un gruppo molto frizzante di persone dall’aspetto veramente pallido e dal volto sorridente e gentile.
Mi corrono incontro e si dimostrano molto felici di vedermi. Il loro accento è sicuramente d’oltreoceano, ma non riesco bene ad identificare da dove vengono con esattezza.
Sono loro a togliermi subito dall’imbarazzo: “We are Canadians (siamo Canadesi): da due settimane abbiamo iniziato un progetto di assistenza medica e sociale presso il dispensario di Mikinduri, ed ora siamo venuti qui a Chaaria perchè abbiamo bisogno di aiuto. Cerchiamo un ospedale dove mandare i nostri malati quando non possiamo gestirli ambulatoriamente nella nostra clinica”.
“Se questa è la ragione della vostra visita, la collaborazione la avete già trovata. Io sono felice di aprirvi le porte del nostro ospedale, per tutte le cose che siamo in grado di fare”.
L’incontro è davvero piacevole: sono persone simpaticissime, con tagli professionali simili e complementari. Ci sono medici e infermieri, ma anche assistenti sociali. Con loro hanno due piccoli bambini keniani, di età non superiore all’anno: sono in braccio alle loro mamme e versano in condizioni non buone.
“Doctor, non preoccuparti... ci prendiamo noi cura di questi pazienti e ve li restituiremo come nuovi”.
Il gruppo è entusiasta, vuole visitare i reparti, e poi mi dice che è loro intenzione tornare in pomeriggio con una grossa donazione di farmaci. Alla Provvidenza non si dice mai di no, ed io ho detto che quelle medicine ci sarebbero veramente servite, ed avrebbero anche portato un po’ di ossigeno alle nostre finanze decisamente stremate.
“Credo che potremmo fare qualcosa. I nostri fisioterapisti sono molto bravi e conoscono il loro mestiere”. Due ore dopo mi trovo davanti Martin. E’ su una carrozzina, ha le ginocchia piegate e molto vicine al petto. Parla molto, e chiaramente nei suoi discorsi si percepisce un certo disturbo psichiatrico: è come una valanga di parole, passa da un argomento all’altro senza una connessione logica e ha fuga di pensiero.
Gli amici canadesi vogliono andare, perchè temono le due ore di strada sterrata, e desiderano raggiungere Mikinduri prima di notte. Io li rassicuro che Martin è in buone mani, e subito comincio una blanda terapia antidepressiva. Poi lo visito insieme ai fisioterapisti e decidiamo che non si tratta di un problema chirurgico, ma fisiatrico: in altre parole, non avrà bisogno di un intervento chirurgico, ma di riabilitazione e di estensione degli arti con tutori.
Decidiamo di applicare subito delle docce che, senza grossa trazione, riescono ad allentare la tensione muscolare e tendinea. Martin ha male, ma sembra aver capito: deve sentire dolore adesso per poi camminare domani.
Passo a rivederlo verso le 23. Sta dormendo e non sembra che la sofferenza sia eccessiva. Per questo decido di non togliere i tutori e di lasciarli in posizione fino all’indomani mattina, quando avrebbe iniziato le sedute di mobilizzazione passiva.
La notte è stata tranquilla, ma alle 9 del giorno seguente vengo chiamato d’urgenza: Martin ha un torace terribilmente congesto, ha fame d’aria e respira malissimo. Tutto è iniziato 5 minuti prima. Quando arrivo il bambino è già in fin di vita. E’ cianotico. Corriamo. Pratichiamo tutte le misure di rianimazione che conosciamo, ma Martin se ne va in meno di dieci minuti.
Mi siedo per terra. Sono svuotato. “Cosa è successo? Non possono essere i sedativi. Ho usato una dose troppo bassa. Non posso averlo avvelenato”.
Poi pian piano mi calmo e mi si para davanti la verità, dapprima come un dubbio... poi come una certezza:
“Un’embolia polmonare! Che stupido! Come ho fatto a non pensarci? Questo ragazzo è stato con le gambe immobili e ripiegate per tre anni, e quando le abbiamo mobilizzate, forse abbiamo dislocato un trombo, e questo è partito attraverso le vene fino a bloccargli i polmoni. Avrei dovuto fare dell’eparina prima di iniziare la fisioterapia... ma ora è troppo tardi”. Come faccio ora a dirlo ai dottori canadesi?
Mi sento vuoto, distrutto e pieno di sensi di colpa. Non ho il coraggio di chiamarli. Preferisco parlare al telefono con il parroco di Mikinduri. Lui mi rassicura e dice che sempre nella vita c’è quello spazio di incognita dove non riusciamo ad avere tutto sotto controllo. Poi aggiunge che forse era un piano di Dio che Martin, abbandonato tra i suoi escrementi per tre anni in una capanna, andasse in Paradiso circondato da persone che cercavano di prendersi cura di lui e di aiutarlo.
Io non ho parole. Sono completamente annichilito e dico solo al parroco di spiegare lui ai miei colleghi canadesi... spero che capiranno e che la nostra collaborazione possa ancora continuare in futuro, così come avevamo sognato.
Fr Beppe Gaido
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