sabato 28 marzo 2009

Quando un piccolo particolare può causare un disastro


Jerusha (nome d’arte) era stata ricoverata 3 settimane fa per una impressionante leucorrea dall’odore praticamente intollerabile. Avevamo dovuto isolarla perche’ le altre pazienti non accettavano di stare nella stessa camera con lei.

Abbiamo raccolto un po’ di storia clinica, e la malata ci ha detto che la sintomatologia era iniziata spontaneamente, ed in modo graduale.
L’ecografia era suggestiva di malattia pelvica infiammatoria, ed abbiamo coperto la paziente con antibiotici. Abbiamo usato tutti i prodotti indicati in letteratura per la terapia della suddetta condizione… ma la malata globalmente non migliorava come ci saremmo aspettati. Il cattivo odore si e’ in effetti ridotto, e questo ci ha dato per un momento la sensazione di essere sulla strada giusta. Jerusha poi non aveva segni addominali di peritonite. L’intestino si muoveva bene e lei andava di corpo normalmente.
L’emocromo ha però cominciato a segnalare un aumento progressivo dei globuli bianchi, ed una anemia ingravescente. L’emoglobina e’ scesa a 4 g/dl, cosa che ci ha indotto a trasfondere la paziente due volte. Abbiamo pensato che la causa dell’anemia fosse la malaria, dal momento che la goccia spessa mostrava una bassa densità di plasmodium falciparum.
La cosa strana e’ che la paziente non aveva febbre nonostante i bianchi elevati, e le condizioni cliniche andavano a volte migliorando e a volte peggiorando nuovamente.
Negli ultimi due giorni abbiamo notato un picco dei leucociti che sono saliti a 35.000, fino a farci dubitare una concomitante leucemia mieloide. L’ecografia, ripetuta tre giorni fa, mostrava questa volta un ascesso pelvico di dimensioni notevoli.
La paziente era debolissima, sfebbrata e con pressione massima di circa 80 mmHg. Presentava inoltre una sudorazione fredda paurosa, ed occhi infossati che ti guardavano con ansia di morte. La motilita’ intestinale c’era ancora e all’eco non c’era fluido libero in cavita’ peritoneale.
Ad un certo punto abbiamo preso la decisione piu’ difficile: dobbiamo aprirla, nonostante le condizioni generali critiche; altrimenti la perderemo per setticemia.
Abbiamo parlato con la malata che ha accettato di firmare il consenso per l’intervento.
Purtroppo, mentre le stavamo facendo i liquidi di riempimento prima dell’operazione, la Jerusha ci ha salutato ed ha deciso di andare in Paradiso, lasciandoci tutti sconcertati e senza parole.
La nostra frustrazione ed i nostri sensi di colpa erano alle stelle. Dove abbiamo sbagliato? Avremmo dovuto andare in sala prima?
Con il consenso dei parenti abbiamo fatto l’ autopsia e ci siamo accorti che l’ascesso era adiacente ad una perforazione settica dell’utero: un buco torbido e necrotico che si apriva a tutto canale dalla cavità endometriale al peritoneo.
“Ma che razza di condizione e’ mai questa? Jerusha diceva che aveva un figlio di tre anni e non aveva avuto gravidanze recenti! Cosa può aver perforato l’utero in questo modo?”
Poi la verità è venuta fuori quasi per caso: una giovane cugina ci ha confidato che circa un mese fa la malata si era fatta praticare un aborto clandestino, usando un ramo di cassava. Lo aveva fatto in casa e non aveva detto niente a nessuno.
“Se solo si fosse fidata di noi! Non l’avremmo certo portata alla polizia per quello che aveva fatto! Quella confidenza ci avrebbe dato un suggerimento molto importante ed avremmo forse deciso per la sala operatoria molto prima, magari salvando la sua vita. Adesso siamo frustrati, con forti sensi di colpa.
Sappiamo che Dio avrà misericordia di Jerusha e l’accoglierà in Cielo, ma ciò non toglie che ora c’e’ un vedovo in più con una bambina piccola da far crescere.Avremmo potuto e forse dovuto fare di meglio, ma veramente siamo stati a corto di idee e quello che poi abbiamo visto post mortem non ci ha neppure sfiorati nel nostro iter diagnostico e terapeutico. Che il Signore abbia misericordia anche dei nostri sbagli e delle nostre limitazioni cliniche; che possa accettare l’anima di Jerusha nella sua pace (quanta sofferenza deve averla portata a quel gesto che poi non è riuscita a confessare neppure a se stessa); e che doni pace al congiunto e consolazione al bimbo ora rimasto senza mamma.

Fr Beppe




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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