sabato 12 febbraio 2011

Un giorno a Chaaria

Era ormai passato il tramomto, quando una coppia con un bimbo e’ arrivata all’ospedale, dovevano aver fatto molta strada. Appartengono alla tribu’ dei Rendille. Sono stata colpita dalla loro bellezza, ma soprattutto dalla preoccupazione e tristezza che vedevo negli occhi della mamma che teneva  in braccio il suo bambino.
Sono stati ospiti in ospedale ed hanno condiviso con noi   alcuni giorni,   poi fortunatamente tutto si e’ risolto e il bimbo e’ stato dimesso guarito.
Nel primo pomeriggio prima di partire, la mamma si e’ spogliata dell’abito ospedaliero per indossare un ampio abito rosso e bianco, vivacissimo, con gesti eleganti ha poi messo al collo altri due collari, oltre quello che portava sempre, un tripudio di colori molto ben coordinati. Quindi e’ arrivato il momento di indossare una corona con dei piccoli diademi di perline e  sempre in tema con la collana, messa intorno al capo; questo atto ha messo in mostra, nel contempo le sue piccole e curate treccine nere. Ai polsi e alle caviglie bracciali di foggia raffinata. Non solo noi europei stavamo a guardarla, ma anche le africane erano incantate. Intanto lei quasi noncurante dei nostri sguardi continuava ad adornarsi come una principessa in procinto alle nozze. Una meraviglia! Pareva una regina. Infine ha posto sul dorso il suo bambino e con il suo uomo, un bel giovane anche lui, si sono rivolti verso di noi e ci hanno salutato con strette di mano. Ho solo capito: caravan, matatu, maniatta.
Con incedere elegante si sono avviati per affrontare un  lungo viaggio   per raggiungere la loro tribu’.
Voglio pensarla come una primcipessa nel deserto.

Rosa



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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