giovedì 25 agosto 2011

Agnes

Tante sono le figure femminili che mi hanno profondamente colpito negli anni della mia presenza qui a Chaaria. La donna africana è come un monumento di pazienza, di laboriosità e di fedeltà di cui non puoi che essere profondamente impressionato. In esse vedo il futuro di questo continente, che potrà contare sulla loro tenacia e fedeltà, sul loro senso del sacrificio e sulla loro forza nel sopportare il dolore.
Oggi vi voglio parlare di Agnes. E’ disperata e continua a chiedersi: “Why, God? What will be of my life?” (Perchè Dio? Cosa ne sarà della mia vita?). E’ gravida all’ottavo mese, ed è venuta per l’ecografia. A me è toccato l’ingrato compito di vedere per primo il disastro. Ho preso il discorso alla larga e le ho chiesto: “quando hai sentito il bimbo scalciare per l’ultima volta?” “stamattina... ne sono assolutamente sicura. Perchè?! C’è qualche problema?”.
A questo punto avrei voluto essere lontano 100 chilometri, ma c’ero solo io nella stanza con lei. Ho dovuto raccogliere tutto il mio coraggio e le ho detto, tutto di un fiato e senza guardarla negli occhi: “Il battito cardiaco è cessato, il tuo bimbo purtroppo è andato in Paradiso di nuovo”. A questo punto mi sono chiuso come un pugile nell’angolo del ring, pronto a ricevere una scarica di violente reazioni a catena. 
In effetti Agnes è scoppiata in un pianto dirotto e senza parole. Riusciva solo a ripetere: “Dio, dimmi perchè?”. Sono passati attimi eterni, a cui è subentrata la sua ricerca affannosa di spiegazioni: “Doctor, dimmi perchè perdo tutti i miei figli quando la gravidanza è a termine. Mi avevi detto che mi avresti aiutato. Avevi chiesto ai tuoi amici con internet. Ti avevano consigliato di darmi delle medicine, ed io le ho prese tutte. Perchè allora? E’ la quarta volta che mi capita. Non ho figli viventi, e temo di essere mandata via da mia marito. Che cosa ho fatto di male perchè Dio mi punisca così?”. “Non hai fatto nulla – le ho detto accarezzandole la guancia e mettendole l’altra mano sulla spalla – ed io non ho parole. Mi dispiace tantissimo, ma non lo so che cosa ti stia succedendo. Scriverò ancora. Parlerò anche con altri medici a Nairobi, ma tu ora devi farti forza. Dobbiamo rimuovere quel feto morto dalla tua pancia, perchè ora sei a rischio anche tu.” “Non voglio che tu me lo tolga. Voglio morire anche io con questo figlio. Non ne voglio altri. Ho sofferto basta. Lasciami morire. Non ho la forza di sopportare i dolori di un altro travaglio, sapendo che poi la fine di tutto quella sofferenza non porterà allo sbocciare di alcuna nuova vita”. A che pro devo sopportare le doglie? “Dio lo sa – le ho detto timidamente – io non ho spiegazioni e non voglio parlare perchè staresti peggio. 
Ti voglio solo dire che la settimana scorsa abbiamo avuto la gioia di dare un figlio primogenito ad una donna che aveva abortito per 6 volte. Non abbatterti. La disperazione non ti aiuterà. Io pregherò per te. Intanto vieni. Andiamo in reparto e iniziamo la flebo di ossitocina. Poi quando tutto sarà finito, penseremo a cosa fare per il futuro. Per ora pensa a vivere”. Ora Agnes è più serena. E’ sotto infusione e comincia a sentire le doglie. Ha degli occhi profondi in cui intravedo un abisso di dolore, ma non piange più. 
“Fatti forza” ,le ripeto e poi non trovo il coraggio di dirle altro e mi allontano. Vado a letto con questa domanda che mi ritorna in mente: “Perchè?”

Fr Beppe Gaido 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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