domenica 23 giugno 2013

Life in west equatoria (Sud Sudan): Teresina

Non ha mai pianto dal momento in cui è nata, non si attaccava al seno materno… niente malaria, niente malattie…solo un parto difficile. Sembra un piccolo problema facilmente risolvibile, ma invece non ce l’ha fatta. Qui no… non siamo riusciti ad aiutarla. 
Abbiamo provato a spiegare alla mamma (all’apparenza quindicenne o poco più e che di latte ne aveva troppo poco), e alla nonna giovanissima (con in braccio la sua ultima nata), che la piccola aveva bisogno di aggiunta di latte in polvere; gliel’abbiamo dato (loro avevano preso quello per adulti), gli abbiamo spiegato le quantità, abbiamo provato con la siringa, con il sondino (purtroppo non molto usato dagli infermieri), ma niente è servito. Stamattina se n‘è andata, la mamma pensava che dormisse. Non c’è stato nessun rumore in reparto, in silenzio hanno preso le loro cose e se ne sono andati. Come fosse una cosa normale.

Le avevamo prese in macchina durante un nostro viaggio nei villaggi per la cura dei pazienti con lebbra, ci avevano chiesto aiuto. Le avevamo portate fino all’ospedale, avevamo fatto il viaggio insieme. Pensavo fossero sorelle, erano madre e figlia. Ognuna con la sua piccola creatura. Una aveva solo 3 giorni. Mi chiedevo dove le avremmo messe visto che la macchina era piena, invece ci siamo stati tutti. Ma non è servito…
Un altro bambino è sparito dal reparto, i genitori l’hanno riportato a casa senza dire niente anche se non aveva finito le cure per la malaria.





Ogni tanto qualche paziente sparisce, magari perchè la madre (o più raramente il padre) ha il lavoro nel campo o altri figli a casa da accudire. Una mattina arrivi in ospedale e (carramba!) trovi qualcun altro al suo posto…
Tornando a casa, mi confortano i bambini delle capanne lungo il sentiero, che mi vedono da lontano e corrono verso di me, gridando “hau-ar-iù”, i più piccini “uaiù”, allungando le manine color terra battuta…
Oggi è sabato e con Asusena (che tutti chiamano Susanna), giovane comboniana del Salvador, siamo andate in bici a trovare Teresina, un’anziana signora che abita in una piccola capanna a pochi chilometri da noi, nel bush. Il sentiero stretto non è comodissimo da percorrere in bici, l’erba alta e le rare capanne tutte uguali ci hanno fatto perdere l’orientamento. Ma siamo arrivate, con l’aiuto di alcuni vicini. Al nostro arrivo, la gioia dell’anziana signora, che vive da sola, era immensa, saltava dalla gioia al vedere che qualcuno era andato a trovarla. E’ subito corsa a mettersi il vestito bello… 
La casa è molto povera, ha poche cose, il tetto di paglia ha alcuni buchi da cui entra l’acqua durante le piogge (e quando piove qui, piove davvero…le strade diventano fiumi in piena).
Nessuno glielo sistema, i figli non si interessano a lei, uno di loro vive lontano. Aveva pranzato con foglie di cassava. Tuttavia, Teresina è uscita nel campo di mais ormai secco a prendere qualche pannocchia (le ultime rimaste) ed ha insistito perché le accettassimo. Siamo entrati nella capanna, ha scritto sul suo quaderno il mio nome per ricordarselo (per la
gente qui il mio nome è difficilissimo). Non pensavo potesse avere un quaderno… ho notato un pettine ormai semidistrutto, qualche pentola sporca, due sgabelli, un piccolo tavolino, una radiolina molto datata e poche altre cose.
Le abbiamo lasciato un calendario e dei biscotti, e la promessa che torneremo. La prossima volta dobbiamo portarle un pettine nuovo. Ora sta per piovere ma il tetto di paglia, purtroppo non so ripararlo. Grazie,

Teresina



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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