sabato 23 maggio 2015

Le donne di Chaaria

Le donne sono la colonna della nostra società in Kenya. Quando le guardo muoversi nei cortili delle loro casette intente a cucinare, oppure curve nei campi concentrate nel seminare, oppure al pascolo dei loro magri bovini, provo per loro un’ammirazione immensa: sempre al lavoro, sempre dedite alla famiglia, ai bambini ed al marito.
Spesso le intravvedo mentre escono dalla boscaglia con un enorme carico di legna sulle spalle; a volte con loro c’è un uomo (il marito?) che non le aiuta affatto a portare il pesante fardello, ma cammina leggero due passi avanti, tutt’al più avendo in mano una panga che verosimilmente è servita a tagliare tutti quei rami che ora pesano unicamente sulla schiena della donna. A volte con queste mamme vedi delle bambine gioviali che scorrazzano qua e là, ignare del fatto che probabilmente, tra non molti anni, saranno loro a portare sulla schiena le pesanti fascine.
Non è infrequente scorgere anche donne in erba, fisicamente ancora bambine ma già educate a quella condizione di lavoro duro che è in effetti il loro destino: sono piccole lavoratrici che sin dall’infanzia imparano il “compito della donna”. 
Le vedi portare “sciabole” taglienti e piu pesanti di loro, o tirare a stento un carretto carico d’erba.. e ancora, camminare veloci prima dell’imbrunire accanto a qualche fratello mentre riportano a casa il bestiame portando sulla schiena una tanica piena d’acqua raccolta al fiume.



Le ho osservate tante volte: sono volti di piccole bimbe che richiamano quelli ancor piu espressivi e significativi delle loro madri.. donne che ormai portano i segni di quest’Africa costruita su tante gocce di sudore che hanno il sapore umano di madri, figlie, lavoratrici...
Quando vedo le donne curve nei campi a seminare, sarchiare o raccogliere i frutti del loro lavoro; quando le vedo zappare e faticare, portando sulla schiena il loro bimbo che dorme saporitamente, penso sempre al mistero della maternità, e mi immagino la terra, femmina anch’essa, anch’essa feconda e produttrice di frutti, alleata nel portare a compimento il comandamento di Dio di “andare, moltiplicarsi e popolare il mondo”.
Le guardo poi in ospedale: si aiutano a vicenda in modi semplici, umili ed umani; le vedo dar da mangiare alla vicina di letto paralizzata, o prendersi cura del bambinetto di quella che è in coma per la malaria. In reparto le vedo semplici e disinibite, sia quando, piene di fiducia, ti mostrano liberamente le loro membra per farsi visitare, o quando, prive di vergogna, si scoprono il seno per allattare anche durante la messa della domenica.
In ospedale a volte le vedi meticolosamente affaccendate a tessere con le mani  i loro capelli in trecce sottili.. quelle stesse mani con cui dividono i semi dalla cascara e con cui asciugano gocce di sudore e di pianto...
Piango nel cuore quando visito una donna bellissima ma sterile: è stata sposata per alcuni anni, ma il marito la considera al pari della terra: l’ha sposata non per la sua bellezza o per la sua bontà, ma per i figli che potrà generare e far crescere: una donna sterile è come un campo inproduttivo ed arido che spesso verrà abbandonato perchè incapace di dare frutti...
Le trovo belle le donne africane, quando le vedo danzare in una festa oppure in chiesa: ogni volta che c’è musica e possono ballare, esse sanno sprigionare un’imponente forza e vitalità che mi conquista.
La gente africana poi pensa sempre al continente che li ha generati come alla loro madre. E’ frequente sentirli parlare di “Mama Afrika” in kishahili; nei mercati puoi trovare delle magliette su cui cui sono stilizzate le forme del continente trasformato in un volto femminile anziano col capo ricoperto dal tipico foulard.
Le donne che incontro sono degne figlie di questa grande madre che è l’Africa stessa, un monumento di umanità, di forza e di dedizione.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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