martedì 16 giugno 2015

Sette passi

Usciti di sala dopo una giornata tremenda, oggi ci attendeva una scena veramente angosciante: un bambino di nove mesi in preda a continue convulsioni senza febbre. L’infermiere già aveva fatto del valium, ma non c’era alcun segno di miglioramento. Le condizioni respiratorie erano pessime: il piccolo aveva un forte broncospasmo ed una inspirazione assolutamente difficoltosa. Il fonendoscopio sul suo trace raccoglieva suoni inquietanti, simili al ribollimento di una pentola a pressione.
Ho subito notato il braccio destro estremamente gonfio e praticamente paralizzato. In corrispondenza dell’avambraccio c’era una piccola escara nera.
Il bambino era troppo grave per sentire dolore, anche quando schiacciavo vicino a quella ferita per vedere se ne fuoriusciva del liquido.
Ho guardato la mamma, ma, prima che potessi formulare la domanda, essa mi ha detto che ha sentito il figlio piangere forte circa tre ore prima, quando già erano a letto. Quasi immediatamente il piccolo ha cominciato ad essere scosso da crisi comiziali incalzanti... ed era la prima volta in suo figlio, diceva la donna disperata.
Dopo aver acceso la lampada a petrolio per assistere il piccolo, la donna ha visto sul muro un grosso ragno nero e peloso come un topo.


Non era sicura che il pianto fosse dovuto al morso di quell’aracnide; lei dormiva ed era buio... ma la bestia era tristemente nei paraggi.
Con l’aiuto del marito è riuscita a uccidere il ragno. Ha quindi cominciato a guardare con attenzione il corpo del bimbo ed ha notato quasi immediatamente la tumefazione e la feritina umida sull’avambraccio.
Da quel momento è stata una catena di eventi a precipizio. Il bambino si è messo a vomitare, poi ha iniziato a presentare problemi respiratori sempre più gravi.
Loro sono di Kiamuri, a 14 chilometri da Chaaria: sono andati al dispensario delle suore, che però non si sono sentite di tenerlo ed hanno consigliato ai genitori di venire da noi.
Trovare i soldi per chiamare un mototaxi ha causato ulteriore ritardo, ed ecco che qui sono arrivati dopo la mezzanotte.
Il bambino era ormai in condizioni disperate. Praticamente “gaspava”, ed il broncospasmo quasi impediva qualunque accesso dell’aria ispiratoria. Il pulsi-ossimetro documentava una saturazione del 60% appena: abbiamo quindi dato ossigeno con generosità.
Per le convusioni siamo riusciti alla fine ad avere la meglio con del barbiturico endovenoso.
Abbiamo dato alte dosi di cortisone e di antibiotico nel tentativo di contrastare il veleno.
I polmoni però non davano segno di miglioramento, anzi... anche il coma si faceva sempre più profondo.
L’attività respiratoria del piccolo paziente si è purtroppo arrestata all’una e quarantacinque di notte, di fronte allo sguardo sgomento della mamma che aveva messo a letto il bimbo quando ancora stava bene.
La donna era pietrificata dal dolore e non piangeva. Noi eravamo distrutti e sconvolti dal modo in cui la nostra giornata terribile si era conclusa.
Un bimbo di nove mesi portato via dal morso della tarantola: non possiamo esserne sicuri al 100%, ma cos’altro potrebbe essere stato?
Che tristezza e che senso di smarrimento! Quando tali cose si abbattono sui bambini, diventano ancor più crudeli. Questa morte ha come cancellato il ricordo di tutte le persone che abbiamo aiutato in sala.
Siamo andati a letto mesti, pensando che ha ragione la nostra gente a chiamare la tarantola “sette passi”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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