giovedì 20 agosto 2015

La provvidenza al nostro fianco

Una settimana fa abbiamo operato di prostatectomia un anziano pastore di Marsabit.
Il problema più grosso che abbiamo rilevato sin dall’inizio è stata la totale barriera linguistica: non conosceva infatti nè l’inglese nè il kishahili.
I primi giorni del post-operatorio sono stati molto complicati perchè la spinale aveva causato una certa confusione mentale che veniva ad aggiungersi alla già spiccata arteriosclerosi legata all’età avanzata.
A volte abbiamo dovuto legarlo, per impedire che si strappasse cateteri e drenaggi.
Avevamo però la presenza del figlio che, nelle ore di visita, parlava con lui e lo tranquillizzava.
Dopo due giorni però il figlio è dovuto rientrare a casa per risolvere altri problemi familiari. Non so se avesse spiegato bene al padre quando sarebbe tornato a trovarlo ed a riprenderlo il giorno della dimissione.
Abbiamo continuato a seguirlo ed a servirlo, facendo del nostro meglio per superare la barriera linguistica. Lui è sempre stato piuttosto oppositivo nei nostri confronti, ma, dal punto di vista chirurgico, andava comunque bene.
Due sere fa sono passato a visitarlo per l’ultima volta alle 22 e mi sono raccomandato che bevesse tanta acqua: naturalmente ho cercato di farmi capire usando solo il linguaggio dei gesti.



Lui era a letto e sembrava quello di sempre: non contento dei nostri servizi, ma rassegnato alla nostra presenza.
Poi all’una di notte il disastro!
Si è alzato per andare ai servizi, e quindi l’infermiere non ci ha badato.
Solo un’ora più tardi si è accorto che qualcosa non funzionava, perchè il paziente non era ancora tornato a letto.
Ha dato l’allarme e sono iniziate le ricerche: non pensavamo che un prostatectomizzato in sesta giornata post-operatoria potesse essere lontano...ma le ricerche sono state vane ovunque.
Il nostro ricoverato era come svanito nel nulla: abbiamo cercato in tutti gli angoli possibili, sia in ospedale, che dai Buoni Figli; sia in comunità che nella shamba... non lo abbiamo trovato.
Di giorno abbiamo avvisato la polizia e le autorità locali di fare ricerche nel circondario: è stato cercato dovunque, ma nessuno lo aveva visto. Per scrupolo siamo andati a controllare anche se per caso fosse stato raccolto per strada da qualche “buon samaritano” e poi portato all’ospedale di Meru: anche lì però nessuna notizia di lui. Si era volatilizzato.
La nostra frustrazione è cresciuta via via con il passare delle ore; insieme ad essa un acuto senso di angoscia al pensiero che egli fosse caduto in un burrone o in un fiume... e fosse morto. Il pensiero della morte si faceva ancora più doloroso, considerando che forse non avremmo mai trovato il cadavere.
Nel frattempo il figlio (da noi tempestivamente avvertito) ci faceva pressioni ed appariva sempre più nervoso ed angosciato.
E’ arrivata nuovamente la notte senza che avessimo raccolto alcun indizio: nessuno di noi ha dormito; era troppo il dolore che avevamo nel cuore, e troppo grande era il senso di impotenza. Pensare ad un operato fuori per una seconda notte, riduceva notevolmente le speranze di trovarlo ancora vivo.
Stamattina sono riprese le ricerche: abbiamo setacciato tutta la missione nuovamente, ma non lo abbiamo trovato in missione. Abbiamo quindi formato dei gruppi di dipendenti che si sono sparsi qua e là per i campi e per i boschi del circondario.
Alle due del pomeriggio non sapevamo ancora nulla ed ormai eravamo quasi convinti del peggio: eravamo certi che un prostatectomizzato, vestito solo della casacca della sala operatoria e con un drenaggio ancora in pancia, non avrebbe potuto sopravvivere a due a notti all’addiaccio, per di più senz’acqua e senza cibo.
Poi però è avvenuto l’avvistamento: è stato trovato sulla collina che c’è dietro l’ospedale, in un boschetto, dove già si era costruito una capanna. E’ stato proprio il gruppo a cui apparteneva anche il figlio a trovarlo: alla notizia ci siamo sciolti in un pianto senza pudori, tanta era la tensione dopo due giorni e due notti di vane ricerche.
Avevamo pregato tanto che il Signore ci facesse la grazia di trovarlo, e Lui non si è lasciato vincere in generosità, ed il miracolo lo ha fatto davvero: il vecchio era in ottime condizioni, come se non fosse nemmeno stato operato. Lo abbiamo riportato in ospedale in ambulanza, anche se lui avrebbe voluto camminare.
Tramite il figlio siamo poi riusciti a sapere che era fuggito scavalcando la rete della recinzione. Lo aveva in modo premeditato, perchè era certo che noi “Bianchi” lo avremmo avvelenato, dopo che suo figlio ce lo aveva venduto e se n’era andato per sempre.
Ecco perchè era fuggito: dopo essere stato abbandonato dal figlio, cercava di evitare che i nuovi padroni “Bianchi” lo uccidessero.
Queste fantasie razziste naturalmente traggono origine in tanto immaginario collettivo delle popolazioni nomadi ed isolate del Nord.
Ora comunque è tranquillo, e dorme nella cameretta di isolamento con il figlio.
Ora sa che suo figlio è tornato e che non lo aveva venduto ai “Bianchi”.
Domani toglieremo i punti e probabilmente lo lasceremo tornare a Marsabit con la sua famiglia: è infatti in buonissime condizioni e la ferita non è infetta.
Dopo giorni di tensione e di paura, sono come svuotato ed ho un terribile mal di testa; a dire il vero, sono però anche molto rilassato.
Pure Giancarlo, che non dorme da due notti, stasera probabilmente riposerà.
Abbiamo ringraziato il Signore in cappella, durante la preghiera, e domattina faremo celebrare una Messa di ringraziamento, perche questo ritrovamento, e le condizioni generali del paziente, sono davvero un miracolo.
Grazie, Signore!

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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