lunedì 13 febbraio 2017

Di giorno e di notte

In maternita’ vedo una donna in preda alle doglie, la quale non riesce purtroppo a partorire il feto che rimane testardamente inchiodato dentro il suo ventre.
Domando rapidamente di chi si trattasse, e Lucy mi dice che era una paziente appena arrivata, dopo aver tentato a lungo di partorire a casa. Non c’e’ tempo per altre domande. 
La pressione della donna e’ buona e lei, a parte il forte dolore dovuto a contrazioni continue, e’ in buone condizioni generali.
Lavoriamo alacremente, ed infine riusciamo a far uscire un maschietto abbastanza piccolino, il quale, per ragioni sconosciute, non voleva saperne di venire al mondo. 
A questo punto sento che il mio compito e’ finito e che mi posso dedicare ad altri problemi: infatti il corridoio e’ pieno come se fosse lunedi’ mattina... siamo proprio diventati un pronto soccorso a tutti gli effetti.
Ad aspettare c’e’ una frattura esposta di una tibia, ed un morso di serpente. Il tempo necessario per applicare una doccia gessata e per contrastare con il siero specifico il veleno del mamba, non supera i 45 minuti.
Ritorno in sala parto e mi rendo conto con disappunto che la placenta non e’ ancora uscita: cio’ costituisce e’ un grave problema perche’ questa situazione porta con se’ il rischio di emorragia post partum.
Bisogna agire in fretta perche’ la mamma sembra un po’ anemica.


Le facciamo una breve anestesia generale e le pratichiamo la rimozione manuale della placenta che si lascia estrarre senza particolari problemi, anche se era ancora attaccata saldamente alla parete uterina. 
Ci sono tante lacerazioni sul corpo della poveretta, ma pian piano le suturiamo tutte. La donna ringrazia Dio per il dono della vita che le era stato concesso per la seconda volta: “adesso sono proprio contenta perche’ a casa ho una bimba, ed ora ho anche il maschietto”.
Anche se l’emoglobina e’ di 7 grammi, la degente ha perso molto, e decido di trasfonderla.
Sono le ore 23 e ritengo di poter andare a letto.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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