venerdì 17 febbraio 2017

Ora, quand'è che morirò?

Una giovane ragazza collassa davanti ai miei occhi. La soccorriamo, la mettiamo sdraiata, ed iniziamo una flebo di soluzione fisiologica per riprendere la sua pressione che era scesa a livelli imprendibili. 
Mi dicono che ha avuto un aborto e che ha sanguinato tanto. Mi rendo conto che c’è bisogno urgente di sangue, ma in questo periodo proprio ne siamo in grave carenza. Io non posso aiutare la giovane che ha il sangue 0 positivo, in quanto il mio gruppo e’ A. 
C’e’ solo una ragazzina di 16 anni, sorella della malata che insiste per donare: io resisto per un po’ perche’ e’ illegale prelevare sangue al di sotto dei 18 anni. 
Poi vedendo le condizioni della donna peggiorare, decido di accettare e accompagno la volenterosa donatrice in laboratorio, dicendo ai nostri tecnici di fare una eccezione, vista la gravità del caso.
Intanto mi avvio in sala operatoria: da Mukothima infatti era arrivata una partoriente con distress fetale. Gli anestesisti oggi sono molto impegnati per vari interventi chirurgici, per cui ci dobbiamo aggiustare senza di loro: gli unici sul campo siamo io, Makena e Gatwiri. 


Come al solito in questi casi, devo fare sia l’anestesista che il chirurgo. 
Pratico la spinale con successo, ma la mamma non collabora… dice sempre di aver dolore e sostiene che l’anestetico “non e’ penetrato”. Resisto per un po’ e poi mi arrendo: devo ripetere la puntura lombare, perchè forse ho iniettato la medicina fuori dal canale vertebrale.
Anche dopo la seconda dose la donna asserisce di avere ancora male: questi sono i casi in cui alla fine ci ritroviamo a gestire una gravissima complicazione... c’è incomunicabilità tra noi e la malata che è così spaventata dall’ipotesi di soffrire, che arriva a mentire sull’effetto anestetico: forse pensa che si tratti di “una generale”, e quindi attende il momento dell’addormentamento. 
Infatti, come prevedevo, mentre ancora mi sto lavando, la mamma smette di respirare.
Devo accorrere e usare l’ambu per la respirazione assistita. Non c’e’ tempo di aspettare: mentre Gatwiri mi aiuta con i farmaci da praticare per la rianimazione, ed io continuo a pompare ossigeno in quei polmoni paralizzati, Makena deve aprire la pancia, anche se non è un medico.
Come sempre, lei e’ bravissima: non si scompone, e pian piano estrae un bambino con chiari segni di sofferenza asfittica, ma ancora vivo.
Io nel frattempo sono ancora impegnato perche’ la paziente non respira e Gatwi non e’ capace a usare l’ambu. Dico a Make di iniziare a chiudere l’utero da sola. Mi dice che le tremano gambe e piedi… ed io le rispondo che tremano anche a me, ma che non ci sono alternative.
Dopo altri dieci minuti che ci sembrano eterni, la paziente riprende la respirazione spontanea, anche se molto superficialmente. Lascio i compiti anestetici a Gatwi, mi lavo e aiuto Makena a chiudere... La mamma rimane incosciente fino all’ultimo punto sulla cute, ma poi finalmente apre gli occhi e si mette a parlare: non si ricorda niente.
Chiede del bimbo che fortunatamente si e’ ripreso, e, ringraziando il Signore, sembra ora fuori pericolo.
Noi siamo a pezzi, ma abbiamo ancora il raschiamento da fare per quell’aborto. La ragazza e’ ora stabilizzata. Il sangue scorre nelle sue vene, ed il polso si è fatto pieno. In corridoio vedo la coraggiosa sorellina che ha donato. Mi ferma e mi chiede: “ dottore, ora quando e’ che moriro’?” Mi sono scese le lacrime dagli occhi: e’ infatti una credenza comune da queste parti che nel sangue ci sia la vita e che chiunque dona, poi perde parte della vita stessa e muore presto. Questa e’ anche una delle ragioni culturali per cui e’ cosi’ difficile avere donatori. Con commozione grande le ho detto: “ allora vuoi veramente bene a tua sorella se le hai dato il sangue sapendo che poi saresti morta”. 
E lei ha incalzato: “ si’, le voglio bene e preferisco morire io, perchè lei ha dei bambini ed io no”. L’ho abbracciata forte e le ho spiegato che donare e’ un atto di generosita’ senza conseguenze e che io dono ogni 3 mesi dall’eta’ di 18 anni, e sono ancora vivo e vegeto. Credo che mi abbia creduto... o almeno lo spero, perche’ ha davvero sorriso. Che bello pero’ che lei abbia deciso di morire, piuttosto che abbandonare la sorella al suo destino. E’ un atto eroico che veramente mi ha toccato. Sono gia’ le 14.30. Spero di riuscire ad andare a mangiare qualcosa

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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