martedì 3 ottobre 2017

Lettera di Bianca

Ciao Beppe,
Sei molto impegnato al tuo ritorno quindi ho deciso che una mail sarebbe stata la cosa più semplice per scriverti di queste tre settimane passate in questo posto unico e magico che e' Chaaria.
L'inizio è stato difficile devo ammetterlo, l'impatto con l'ospedale dopo 24 ore di viaggio è stato come una specchiata di realtà. 
L'ospedale era pieno come ora, due persone per letto, tanta sofferenza e poco personale che però ce la mette tutta. 
Qui non si usano medicinali e tecniche costose come a Torino, ma poi con il passare dei giorni scopri che miele e zucchero possono guarire ferite molto profonde. 
Sembra un miracolo: dopo una settimana di "dressing" con impacchi di miele, betadine e garze la tibia esposta comincia a non vedersi più e scopri che la ferita si sta chiudendo.
Voglio condividere con te questa storia che mi rimarrà per sempre nel cuore.
Joy è una signora non più giovane e la sua storia clinica sono 5 precedenti parti di cui solo uno è andato a buon fine. 
Ho aiutato le infermiere a preparare la paziente: catetere e cannula sono a posto. Portiamo la paziente in sala per cesareo (CS). Non ho le capacità per partecipare all'intervento, ma ho finito il mio lavoro per quel giorno ed è sera ormai. 


Chiedo se è possibile assistere all'intervento: ginecologia mi interessa sempre di più come specialità e così posso guardare il CS. 
Una volta che la spinale è stata fatta e il chirurgo chiede il bisturi ed incide la cute della paziente, però, comincio a sentire l'ansia crescere dentro di me. 
Joy mi aveva confidato prima dell'intervento la sua preoccupazione di avere un altro bimbo nato-morto. 
L'operazione continua, si apre l'utero, due cocker, una forbice, il bambino è fuori. Non piange. Nessuno parla ma tutti sono preoccupati. "Suction, suction", urla l'anestesista: si rianima a lungo, ma poi si gioisce: il bambino è vivo e sta bene. Joy grida "Bless God, God is good!!"
Dall'altra parte del telo verde però la situazione è critica, la paziente continua a sanguinare, c'è un momento di panico. 
Ed è proprio in quel momento che ho deciso che il mio posto non era ai piedi della paziente a guardare l'operazione ma era vicino alla sua testa, alla sua mano. Joy gridava e ringraziava Dio e a tratti entrava in panico perché non capiva cosa stava succedendo. 
Ho deciso di stringerle la mano e di parlare con lei per distrarla, abbiamo parlato per un'oretta buona e tra le cose discusse c'è stata la scelta del nome. 
Abbiamo cominciato a scegliere il nome e ognuno proponeva il sul. Le ho proposto di chiamare il figlio Richard. 
Nel mentre I chirurghi e la equipe di Chaaria hanno saputo mantenere la calma e risolvere al meglio la complicanza: la paziente era di nuovo stabile.
Abbiamo portato Joy e il suo bambino in reparto di maternità ormai colmo di mamme.
Al mattino dopo sono andata a vedere come stavano e Joy mi ha detto che suo figlio si chiamava Richard.
Grazie di cuore Beppe, perché in queste tre settimane non ho solo appreso nuove nozioni nell'ambito della medicina ma anche a essere una persona migliore.
Ti abbraccio

Bianca


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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