mercoledì 14 marzo 2018

Le piogge e la semina

In una società agricola come quella di Chaaria, tutti aspettano le piogge con ansia.
La stagione umida porta con sè la possibilità di raccolti e quindi fa svanire dall’orizzonte lo spettro della fame.
Quando la gente vede le prime precipitazioni e spera che esse continuino, il campo diventa la preoccupazione principale: bisogna dissodare, arare, seminare. Poi, dopo due settimane circa occorre diserbare (con la panga e piegando la schiena), per evitare che la gramigna si mangi tutto l’humus e non ci sia nutrimento a sufficienza per le pianticelle seminate di recente.
Anche chi è malato in genere, se può, posticipa l’ospedale e va a piantare le sementi nella propria shamba, a meno che la malattia sia del tutto urgente e non dilazionabile.
Il lavoro agricolo ha la precedenza su tutti i problemi di salute cronici e pianificabili: una carie dentaria può attendere, se non è più che dolorosa. 
Un intervento chirurgico programmato lo si posticipa, magari dopo il raccolto, quando in tasca c’è qualche soldo in più. Una gastrite può aspettare! Soltanto per le urgenze, gli incidenti o per la maternità l’ospedale ha la priorità sui lavori agricoli!


Pure la nostra missione dipende pesantemente dai raccolti che riusciamo ad ottenere dalla shamba. Anche noi quindi abbiamo arato tutto il nostro appezzamento di terreno, che in questi giorni pullula di personale assunto a giornata per la semina.
Come vedete le persone che accettano di lavorare come braccianti nella nostra shamba sono soprattutto le donne, pilastro fondamentale della società in Africa.
Oggi comunque non ha piovuto: moltissimi sono stati incoraggiati a venire in ospedale...forse hanno già finito la semina!
Abbiamo quandi lavorato tantissimo, sia in sala operatoria, che fuori.
Dulcis in fundo poi, stasera dopo il giro dei malati, ho ucciso la mia prima tarantola in ospedale: ragni, serpenti e scorpioni sono infatti un altro aspetto collaterale della stagione delle piogge.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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