giovedì 5 aprile 2018

Ha parlato solo lui

Entrano nel mio studio una donna ed il suo uomo. Dal modo in cui vestono comprendo che si tratta di nomadi venuti dal Nord.
Lei e’ vestita in sgargianti tessuti rossi, che le coprono anche la testa a mo’ di scialle. Anche lui ha una specie di gonna, che gli arriva fin sopra le ginocchia. 
Porta in mano un lungo bastone da pastore, ed al suo fianco fa la sua bella figura un enorme pugnale: “E’ per difesa personale”, mi dice in risposta ad un mio sguardo muto.
La donna si siede sulla sedia senza proferire una parola.
E’ invece il marito a spiegarmi tutto quello che riguarda la salute della moglie.
Ascolto lui, ma guardo lei.
Ha gli occhi fuori dalle orbite (nel vero senso della parola), un notevole rigonfiamento al collo, ed un batticuore micidiale, che posso osservare anche da lontano semplicemente guardando la danza impazzita delle sue carotidi alla base del collo.
La diagnosi e’ evidente: si tratta di un ipertiroidismo estremo.
Mentre la contemplo in quell’atteggiamento passivo e rassegnato proprio delle donne che vengono dal deserto, provo per lei una pena estrema. 


Allo stesso tempo cresce in me una sensazione sempre piu’ chiara di “deja’ vu”... L’uomo continua a parlare ed a rispondere alle mie domande sui sintomi della moglie, sintomi che lui pare conoscere meglio della paziente stessa, visto che non le chiede mai nulla prima di rispondere.
Ad un certo punto gli domando: “Hai dei documenti precedenti?”
Lui annuisce e mi mostra un “grumo di carta” avvoltolato in una sacchettino di plastica nero. Queste “carte”, come anche i pazienti di fronte a me, “odorano” in modo nauseante di latte cagliato... e’ la puzza tipica dei pastori che vivono in zone aride e prive di acqua.
Le apro con fatica. Sono in parte appiccicate tra di loro, forse a causa di liquidi sconosciuti versatisi su di esse in tempi indecifrabili.
Tra di esse intravvedo comunque una mia ecografia di marzo, in cui avevo diagnosticato una tireotossicosi, prescrivendo pure una terapia che sarebbe dovuta durare per molti mesi, con visite di controllo interposte.
“Come mai non siete mai venuti agli appuntamenti? Tua moglie prende le medicine?”
“No, perche’ non ce lo possiamo permettere economicamente”
“Ma se tua moglie non assume la cura finira’ per lasciarci le penne!
Devi vendere una mucca o un cammello e comprarle i farmaci”.
L’uomo si fa serio, ma non rivolge neanche una parola alla moglie. Non so se questa donna comprende il kiswahili oppure no. Sulla sua faccia inespressiva leggo comunque un fatalismo atavico e doloroso per me da accettare.
L’uomo poi continua ad apostrofarmi: “siamo venuti per un’operazione,
in modo che tu possa rimuovere il male una volta per tutte”.
“Ma non posso fare un intervento per una malattia che ha una cura solo medica. Devi comprare le medicine per la tua donna, se vuoi che sopravviva”.
A questo punto vengo tagliato fuori dalla conversazione in quanto questo giovane pastore si rivolge improvvisamente alla ragazza seduta di fronte a me, ed inizia a parlarle in una lingua che non comprendo.
Confabulano per pochissimi secondi. Lei continua a guardare il pavimento con quegli occhi sporgenti che quasi fanno impressione perche’ paiono uscire dalle orbite da un momento all’altro.
“Ha deciso che, se non puo’ essere operata, allora per lei e’ meglio morire. Non vuole assumere farmaci per un tempo cosi’ lungo”.
“Ma sei sicuro di quello che dici? La tua donna e’ ancora giovane e non puoi lasciarla andare al creatore semplicemente perche’ non vuole assumere farmaci... Sei sicuro che non sei tu piuttosto a non volerglieli comprare?”
La guardo. Provo a parlarle in kiswahili, ma lei rivolge uno sguardo interrogativo al marito. E’ chiaro che non mi ha capito.
La decisione dell’uomo e’ stata irremovibile. Lui era venuto per un’operazione. Io ho rifiutato l’intervento, e quindi lui non ha piu’ bisogno di me.
Il giovanotto che mi ha tenuto in scacco ormai da mezz’ora adesso dice qualcosa nella lingua madre, ed i due scompaiono dalla mia vista, lasciandomi completamente abbacinato.
“Chissa’ se veramente quella donna (di cui ora non ricordo neppure il nome) ha rifiutato le terapie, o se semplicemente l’uomo ha deciso per lei senza renderla partecipe di una scelta che avra’ conseguenze gravissime per la sua salute in futuro!”
Purtroppo non lo sapremo mai!

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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