lunedì 9 luglio 2018

Mi è morto tra le mani

J. e' un bambino di quattro anni in condizioni estreme.
E' qui ricoverato per una forma gravissima di malnutrizione.
Nel corso degli esami del caso, lo scopriamo HIV positivo: ovviamente questa e' una catena di sofferenza in quanto essere sieropositivo a quell'eta' implica che lo sia anche la mamma.
Ha tanta tosse produttiva e facciamo anche diagnosi di tubercolosi, raccogliendo i bacilli con il sondino maso-gastrico.
Per J. inizia il calvario della pesante terapia antitubercolare unita agli antiretrovirali.
Lui poi e' molto anemico e lo dobbiamo trasfondere. E' bianco come un cencio, ha gli occhi gonfi a causa della mancanza di proteine, i suoi muscoli sono piccolissimi e flaccidi.
Ci sembra che abbia anche versamento pleurico e lo mandiamo a Meru per la lastra del torace.
La nostra sorpresa e' grande quando la radiologia dimostra non un versamento, ma una enorme massa che occupa completamente il lobo superiore di sinistra.
Il radiologo mi chiede di completare la diagnosi con una TAC del torace, che conferma la natura solida della lesione.
Il collega consiglia un'agobiospia che io mi sento di fare.


Quando pero' mettiamo J. sul lettino e ci apprestiamo a fare il prelievo bioptico, il piccolo ha un grave accesso di tosse, seguito da una emottisi importante con grossi coaguli.
Ci rendiamo conto immediatamente che le sue condizioni stanno precipitando ed il suo respiro diventa "gasping".
Non eseguiamo la biopsia ma tentiamo disperatamente la rianimazione che pero' fallisce completamente.
J. muore in pochi minuti.
La mamma si dispera e non si da' pace, anche se le patologie di cui era affetto il piccolo, unite alle sue poverissime condizioni generali, non lasciavano presupporre una guarigione.
Io mi sento malissimo, soprattutto perche' e' successo quando stavo per fare la biospsia. 
Se fosse successo mezz'ora prima, nel suo letto in pediatria, e non sulla mia barella in attesa di biopsia, mi sentirei meno in colpa.
Ma la morte e' spesso piu' forte di noi.
Ringrazio lo staff della pediatria che e' stato molto vicino alla sua mamma nei duri momenti che hanno seguito il decesso. 
Io, come al solito, non mi sono potuto fermare e sono stato chiamato in sala per due interventi urgenti.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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