mercoledì 29 agosto 2018

Una nuova vita

Sto visitando un paziente in room 17, quando vengo chiamato urgentemente in sala parto. Il bimbo dell’ultimo cesareo e’ veramente in pessime condizioni. 
Non respira, e’ cianotico e l’attivita’ cardiaca e’ lentissima.
Dalle narici aspiriamo un liquido verde e densissimo: “ha inspirato molto meconio… Prendi subito l’adrenalina, e iniziamo la rianimazione cardiorepiratoria”.
La medicina viene iniettata lentamente attraverso il cordone ombelicale. Lucy afferra il piccolo torace tra le dita e ritmicamente usa i pollici per il massaggio cardiaco. Io infondo aria e ossigeno con l’ambu.
Sono minuti eterni, in cui il nostro sudore scorre abbondante anche a causa della lampada che abbiamo acceso a distanza ravvicinata dalla cute del neonato, per assicurargli una adeguata temperature corporea.
Il colore viola delle sue labbra pian piano cambia al roseo, grazie al ritmico pompare e all’ossigeno che entra abbondante attraverso la minuscola sonda di Mayo.
Il battito cardiaco, dapprima non superiore ai 30 al minuto, gradualmente risale fino a valori normali per un neonato.


Compaiono i primi sforzi respiratori: per vari minuti sono solo gasping, ma poi lentamente il bimbo assume una respirazione regolare, dapprima molto superficiale ed in seguito sempre piu’ valida.
A questo punto prendo il pupo per i piedi e lo sculaccio decisamente… finalmente reagisce con vigore ed emette un forte pianto. Ce l’abbiamo fatta; lo abbiamo ripreso per la punta dei capelli.
Wambeti incannula una vena con la sua solita rapidita’ e poi si rivolge direttamente al bimbo: “usisahau kupumua tena” (non dimenticarti mai piu’ di respirare).
Oggi ha vinto la vita. Questo bambinone di 4400 grammi proprio non ne ha voluto sapere di andarsene ancor prima di aver visto il suo primo giorno di vita.
Ora posso tornare dal mio paziente che e’ rimasto a lungo ad attendermi sulla barella di room 17.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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