venerdì 2 novembre 2018

Abruptio placentae a Chaaria

Jane e’ arrivata alle 10 di mattina con importanti contrazioni a termine di gravidanza. Alla visita ostetrica in sala parto, le nostre infermiere hanno documentato una dilatazione cervicale di due centimetri con assenza di battito cardiaco fetale.
Hanno quindi inviato la paziente al sottoscritto per una ecografia: sfortunatamente ho confermato una morte intrauterina a termine, ma non ho notato altri problemi. Non c’era placenta previa e non si osservavano segni di distacco o di ematoma retroplacentale.
Ho quindi deciso di informare la mamma della perdita del feto per motivi al momento sconosciuti (la pressione arteriosa era infatti nella norma; non c’erano edemi o proteinuria, e la malaria era negativa).
Siccome normalmente le linee guida del Ministero per la Salute del Kenya ci spingono a non fare cesarei su feto morto, abbiamo deciso di lasciarla contrarre fino al parto naturale.
C’era qualcosa che mi turbava nella paziente, ma onestamente in quel momento non ci ho dato molta importanza: la donna infatti contraeva moltissimo, con contrazioni pressoche’ continue, pur avendo solo due centimetri di dilatazione.


Travolto dal superlavoro di Chaaria non ho piu’ chiesto nulla della cliente in questione, pensando che avrebbe partorito.
Sono pero’ stato chiamato all’una di notte perche’ Jane aveva una emorragia antepartum.
Vincendo la stanchezza ed il sonno, ho valutato la quantita’ di perdita vaginale che mi e’ sembrata modesta; ho fatto un controllo urgente dell’emoglobina ed ho trovato un valore di 11 g/dl; ho rifatto una visita ginecologica ed ho trovato una dilatazione di tre centimetri. Ho nuovamente notato le contrazioni uterine praticamente continue e la mamma in preda ad un dolore estremo.
La quantita’ minima di emorragia esterna e l’emoglobina apparentemente stabile mi hanno tratto in inganno, ed ho perseverato nel piano di farla partorire naturalmente, per evitarle una cicatrice da pregresso cesareo senza un figlio vivo.
Ma alle sei di mattina sono stato chiamato nuovamente perche’ Jane era in stato di shock; le contrazioni uterine erano continue ed inefficaci, mentre l’emoglobina era scesa a 4 grammi.
Abbiamo quindi dovuto procedure ad una veloce stabilizzazione delle condizioni generali, alle prove crociate urgenti ed al taglio cesareo d’emergenza.
Aprendo quella pancia abbiamo trovato un utero “a macchia di leopardo” a causa di moltissime aree di imbibizione emorragica (quella che in inglese chiamamo extravasation). Dopo l’incisione dell’organo e la rimozione del feto morto, abbiamo trovato un enorme ematoma retroplacentare: la paziente aveva quindi avuto una abruptio placentae (distacco intempestivo di placenta) che probabilmente era minimo al ricovero, ma e’ continuato poi rapidamente causandole sia l’enorme ematoma e l’emorragia interna, che il rischio di apoplessia uterina da imbibizione ematica attorno ai miociti.
Abbiamo giudicato che quell’utero avrebbe potuto riprendersi, e percio’ non abbiamo fatto l’isterectomia.
Con una serie di trasfusioni siamo poi riusciti a stabilizzare l’operata, che ora e’ gia’ stata dimessa.
Quali sono le lezioni che ho imparato da questo caso clinico?
1) Prima di tutto, contrazioni uterine eccessive e continue all’inizio del travaglio non sono normali neppure in caso di morte endouterina, e sono sempre un indice di pericolo perche’ possono portare a rottura d’utero, o ad apoplessia uterina.
2) Una abruption iniziale puo’ essere molto difficile da documentare all’ecografia.
3) Le perdite vaginali non sono una indicazione affidabile della quantita’ di sangue effettivamente perso, in quanto nell’abrutio placentae la maggior parte dell’emorragia e’ interna.
4) Piu’ che dell’emocromo ci si deve affidare alle condizioni generali della paziente (ipotensione, polso piccolo, shock), perche’ l’emorragia acuta causa prima di tutto emoconcentrazione e l’emoglobina puo’ mantenersi elevata per molte ore, portando ad un ritardo diagnostico-terapeutico.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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