martedì 16 aprile 2019

La morte

Veder morire una persona per cui ti sei impegnato tantissimo e’ sempre una sconfitta gravissima per un medico. 
Se poi questo malato era giovane e lascia dietro di se’ una o piu’ piccole creature orfane ed un consorte affranto, il senso di fallimento diventa doloroso e frammischiato a innumerevoli sensi di colpa: “ho fatto veramente tutto quello che potevo? Dove ho possibilmente sbagliato?”
A questo si aggiunge l’angoscia di dover affrontare i parenti: la paura di non saper far fronte alle loro emozioni; il timore che, in un momento di rabbia, ti accusino anche di cose che non hai fatto.
La profonda depressione che segue la morte di un malato affidato alle tue cure non e’ un segno di “delirio di onnipotenza”: lo sappiamo tutti che in medicina ci sono battaglie perse in partenza, ed altre che hanno alte percentuali di sconfitta. 
Ci rendiamo conto che ogni procedura da noi eseguita ha delle percentuali di mortalita’ che sono ormai conosciute in tutto il mondo e documentate in letteratura. 
Ma quando quel “per cento” riguarda te e la persona per la cui sopravvivenza stavi lottando, le cose cambiano. Il mondo sembra crollarti addosso. 


A volte fa capolino la tentazione di bloccarsi: “non faro’ mai piu’ quella cosa”. Il tuo cuore lo sa che si tratta di una reazione psicologica infondata e pericolosa... dentro di te senti che sarebbe uno sbaglio buttare nel cestino la patente dopo un incidente stradale... ma la tentazione e’ forte.
Bisogna davvero metterci molta forza di volonta’, per fare una analisi oggettiva di tutto il piano terapeutico ed eventualmente correggere delle possibili lacune nei protocolli dell’ospedale... ma soprattutto occorre farsi forza e continuare a lavorare, perche’ ritirarsi nelle fobie, priverebbe molti altri malati di servizi necessari alla loro sopravvivenza.
Quando poi tutto capita alle 3 di notte, e’ chiaro che non ci sarà verso di prendere sonno nuovamente, ed il letto diventera’ come una prigione.
Dite una preghierina per me e per tutti coloro che lottano quotidianamente contro la morte, perche’ e’ veramente dura vedere la luce della vita fuggire dagli occhi del tuo paziente, senza sapere cos’altro fare per impedirgli di andarsene.
Ci sono poi situazioni strazianti in cui sai cosa dovresti fare, ma non ne hai la possibilita’...come ieri notte quando ho visto la vita andarsene da una giovane donna, ben sapendo che quello che la stava uccidendo era una anemia gravissima. 
Ma io non avevo sangue del suo gruppo e non l’ho trovato negli ospedali che ho chiamato di notte.
Quella donna ventenne o poco piu’ mi ha guardato a lungo con occhi sempre piu’ spenti e con un respiro sempre piu’ superficiale. Avevo a disposizione solo liquidi, cortisone ed adrenalina. Sapevo che con del sangue lei non sarebbe morta, ma io il sangue non lo avevo.
Passando in cappella questa sera ho chiesto perdono a questa giovane donna per non averle salvato la vita, anche se altrove sarebbe stato possibile e forse anche relativamente semplice.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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