ho deciso di scegliere questo titolo, perchè è una frase stupenda, una in cui mi trovo perfettamente a mio agio e che costituisce per me non un ideale raggiunto ma una tensione quotidiana.
Anche io come san Camillo vorrei avere 100 mani perchè mi rendo conto che i bisogni sono così tanti che spesso due non bastano. Vorrei avere un cuore più grande, perchè a volte mi sento meschino e non so ascoltare con la dovuta attenzione, non so dimenticare me stesso per fare spazio agli altri nel bisogno, divento nervoso e irritabile quando il lavoro mi soverchia.
Desidererei essere capace di dormire solo due ore per notte su una sedia, come faceva il Cottolengo, per essere sempre pronto alla chiamata dei suoi poveri... ma poi mi rendo conto che non ce la faccio, che spesso ho un senso di rifiuto verso i pazienti, che vorrei essere ascoltato piuttosto che ascoltare sempre e solo i problemi degli altri.
Comunque è importante tenere alti gli ideali e ringraziare che ci siano giganti come San Camillo o come il nostro Padre Fondatore che ci stimolano a non essere mai soddisfatti di noi stessi, e ci ripetono: “...più cuore in quelle mani, fratello!”
Madre Teresa di Calcutta non permetteva alle sue novizie di andare in servizio senza il sorriso sulle labbra.
Si racconta che un giorno richiamò in convento una suora che si era recata in reparto con una faccia scura, e le aveva detto che Gesù aveva diritto al suo sorriso.
All’inizio ho trovato questa azione della Fondatrice molto strana, ma pian piano comincio a capire il significato pedagogico che essa voleva comunicare: dare il meglio al Signore che contempliamo nei poveri; fargli sentire che Egli è il nostro tutto e che si merita il massimo in ogni momento.
Quanto è difficile anche questo aspetto della carità!
Quante volte andiamo in reparto con il muso lungo, magari portandoci dietro gli strascichi di un litigio in comunità, o di una incomprensione con qualche membro dello staff.
Poi i poveri diventano i nostri “capri espiatori”: su di loro scarichiamo il nostro malumore e spesso anche il nostro nervosismo.
Tante volte certi malati ricevono lavate di capo o parole rudi, per il solo fatto di aver attraversato la nostra strada nel momento sbagliato.
Anche qui abbiamo una frontiera sempre difficile nel nostro quotidiano: essere buoni e gentili; essere sorridenti ed accoglienti è molto di più che lavorare per gli altri 24 ore al giorno.
Si può fare lo stesso servizio umiliando chi lo riceve e facendogli capire “che proprio ci ha rotto”; oppure si può agire con carità in modo discreto e gentile, in modo che nessuno possa star male a causa dei servizi ricevuti.
Credo che la carità verso il prossimo possa diventare in se stessa una spiritualità che guida tutta la nostra vita: essa diventa una sintesi in cui possiamo davvero far convergere e concentrare gli aspetti più importanti della vocazione cristiana.
Che grande valore ha il lavoro per i bisognosi, quando in essi si cerca di contemplare il volto di Gesù: esso diventa per noi il modo concreto di raggiungere la contemplazione, e di dare concretezza alla nostra preghiera.
Sappiamo dal Cottolengo che “è una bella cosa sacrificare la salute, ed anche la vita per aiutare i più bisognosi”, e dobbiamo ammettere che è vero: quando abbiamo dato veramente tutto; quando ci sentiamo come svuotati e mangiati dagli altri, sperimentiamo una pace profonda che nessuna forma di svago ci può far provare; facciamo l’esperienza della carità autorigenerante: infatti, quanto più si dà, tanto più si scoprono in se stessi energie mai prima sospettate.
Si credeva di essere sull’orlo dell’esaurimento nervoso, ed invece quasi per magia si sperimenta che si ha di nuovo voglia e soprattutto lucidità per ricominciare.
Il Cottolengo ci voleva capaci di dedicarci a Gesù presente nel povero fino al sacrificio della vita: quanto siamo ancora lontani, ma per me questo è un ideale costante.
Tanti altri aspetti della mia spiritualità si sono un po’ persi per strada, ma questo rimane fermo ed inossidabile: qui è la strada che mi sento di poter continuare a percorrere, per tentare di diventare un autentico figlio del nostro santo Fondatore.
In questo ideale vivo la mia preghiera quotidiana: magari non sono stato capace di fare grandi meditazioni, o forse ho dormito nei pochi minuti che sono riuscito a ritagliarmi in cappella, ma almeno ho cercato di non dire di no a nessuno, mi sono sforzato di esser buono e sorridente, e quando non ci sono riuscito, il senso di colpa che ne è derivato, mi ha fatto star così male da diventare automaticamente uno stimolo al miglioramento.
Tutti siamo alla ricerca di una stella polare, di una idea forza che dia unità e senso alla nostra vita: io l’ho trovata in questa dimensione di dono di me stesso senza misura e senza limiti, una dimensione a cui ogni giorno vengo meno a causa del mio egoismo, ma che si ripresenta viva e chiarissima dopo ogni mia meschinità e pigrizia.
Spesso penso ai poveri come ad un’ostia consacrata: loro sono Gesù che soffre ed i letti sono come degli altari. Io quindi ho la grande fortuna di poter toccare quest’ostia dal mattino alla sera; ho anche la responsabilità di trattarla bene e di non mancare di rispetto.
Ecco quindi che per me, il reparto può diventare una cattedrale, con tanti altari quanti sono i letti.
Ecco quindi che faccio fatica pensare alla vecchia dicotomia tra lavoro e preghiera, tra ospedale e cappella: mi sembrano solo due facce della stessa medaglia.
Con questi pensieri semplici, auguro a tutti coloro che seguono e si ispirano a San Giuseppe Cottolengo, una buona festa del Santo Fondatore.
Fr Beppe Gaido
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