Spesso ci sentiamo impotenti ed inutili. Ci chiediamo seriamente che senso ha avuto curare la malaria di un bambino, sapendo benissimo che poi sarebbe morto lo stesso al prossimo attacco. A volte abbiamo tentato di nasconderci dietro la scusa della stanchezza, come ieri sera, quando l’infermiera della notte mi ha chiamato alle 23, dicendomi di rivedere una ragazzina di 13 anni che le sembrava in condizioni fisiche precarie. Io le ho risposto che veramente non ce la facevo più dopo due cesarei, e che quindi avrebbe potuto instaurare lei stessa un piano terapeutico per la notte. Io poi avrei visitato la paziente il mattino seguente con un po’ più di lucidità mentale. Peccato che quella bimba sia morta durante la notte ed io non abbia mai avuto la possibilità nè di visitarla, nè di chiederle scusa per non aver capito la gravità della sua situazione. E’ proprio vero: qui tutto è esagerato, sia nel bello che nel brutto.
A volte ci sentiamo come dei nani che cercano di arginare le falle di una diga, infilando il pollice nei buchi del muro: che senso ha lottare quando non hai mezzi; che senso ha inseguire una diagnosi quando alla fine sai benissimo che non avrai nè soldi nè strumenti per offrire una cura: vedi tutti quei giovani che muoiono di cancro o di insufficienza renale o cardiaca, sai che altrove sopravviverebbero e ti senti un verme... eh sì, perchè se a me venisse il cancro, certo sarei trasferito in Italia e lì riceverei tutte le terapie dell’ultima ora. Quanto sono lontano dall’ideale del Cottolengo che avrebbe voluto essere ricoverato semplicemente in uno dei letti dei suoi poveri.
Sono andato al mortuario per vedere ancora la piccola che ho tradito nelle ultime ore della sua vita: aprendo la cella frigorifera mi è venuto un colpo al cuore. Era sdraiata vicino a Edina, che nessuno è ancora venuto prendere. Due vite giovanissime, stroncate dalla povertà, e dal mio limite umano che a Chaaria viene ingrandito come con una lente... però cosa potevo fare se davvero non ce la facevo più?
Fr Beppe Gaido
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