venerdì 31 ottobre 2008

Caro Max


Caro Max,
sei partito da pochi minuti, e mi sento un po’ “perso”. Pensavo tu andassi domani, e la notizia improvvisa che ci eravamo sbagliati di data e che dovevi lasciarci entro pochi minuti, mi ha lasciato un tantino spaesato: mi sono messo a pensare a quei tubi nelle pance, alle prostate ancora in lavaggio continuo... ma poi, come sempre ci dicevamo l’un l’altro prima di ogni intervento: “c’e’ la Provvidenza”.
Anche quest’anno la tua presenza e’ stata allo stesso tempo come un uragano e come una brezza leggera di primavera.
Sei per noi un uragano, in quanto con te sempre ci sono interventi nuovi da imparare, tecniche antiche da perfezionare, ulteriori conoscenze sui materiali e metodi chirurgici da impiegare.
Pero’ sei un dolce venticello di primavera, perche’ con te si sta bene; si lavora tanto ma sempre con serenita’ e senza tensioni di sorta.
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Quello che piu’ ammiro in te e’ la tua calma, la capacita’ di non arrabbiarti mai, nemmeno quando io o il nostro staff compiamo palesi errori. Tu non sei come tanti chirurghi, che in sala si trasformano, diventano scortesi, fanno volare i ferri e creano tensione.
Anche quando l’intervento va male, riesci a rimanere padrone dei tuoi nervi, e questo per noi inesperti e’ una medicina potente, un ansiolitico migliore del valium.
Poi sai rapportarti con i nostri infermieri in maniera encomiabile: gia’ ora continuano a dire che ci mancherai molto e che sei stato bravissimo davvero.
Per Kanyua e Gatwiri hai avuto la tenerezza di un padre, e cosi’ ti hanno definito: baba, che vuol dire appunto papa’... e credimi; data la loro innata ritrosia, ed il timore reverenziale verso un medico bianco, questo e’ davvero un grosso traguardo: hai fatto breccia nel loro cuore.
Mi piace anche molto il tuo essere instancabile: non ti risparmi; sei come una macchina da combattimento dal mattino alla sera. Non capita mai di sentirti dire, a meta’ intervento: “ma chi me lo ha fatto fare di mettermi in questo pasticcio”. Questa e’ una caratteristica veramente importante che, nel il mio curriculum di “chirurgo-fai-da-te”, ti rende il mio mentore piu’ significativo.
Grazie anche per i momenti in cui abbiamo parlato, per le due volte in cui mi hai accompagnato a Meru per la formazione ECM. Parlare un po’ con te in macchina e’ stato terapeutico, ha guarito le ferite della mia anima, mi ha aiutato a ritrovare la pace. Oggi, quando ti ho salutato ero davvero nella pace, e le tue parole mi sono calate nel cuore come un nettare: “ricordati che sono i tuoi malati e le persone che servi, che ti devono rendere felice”.
Sono in piena sintonia di valori con te. Ricordo quando mi dicesti: “Non so perche’ faccio del volontariato... l’unica idea che mi e’ chiara e’ questa: ho dei talenti, e sarebbe stupido seppellirli ora che sono in pensione. Voglio mettere ancora a disposizione degli altri le cose che so fare”.
Che bello... e questo lo fai in modo davvero intelligente: tu non sei geloso del bisturi. Vuoi che il bisturi lo tenga in mano io, perche’ hai capito bene che non e’ la tua casistica personale quella che conta; e’ piuttosto il fatto che ogni anno tu mi insegni qualcosa di nuovo, e lasci Chaaria un po’ migliore di quello che era l’anno precedente, in mdo da servire la nostra gente sempre meglio e sempre di piu’.
L’anno scorso ci hai regalato la tecnica delle isterectomie, e quest’anno ci hai messi in condizione di iniziare con le prostatectomie e con le appendicectomie.
L’anno prossimo cosa ci porterai? La chirurgia intestinale?
“Insh Allah”... Adesso pero’ viviamo alla giornata, ringraziamo Dio per te e per le cose che ci hai insegnato, godiamo della tua amicizia e stima, e poi, come sempre, “ci abbandoniamo alla Provvidenza”.
Avremmo dovuto bere una birra insieme questa sera... ed invece la berremo noi in tuo onore. Anche la “pietra del Kisii” preparata per te e Grazia mi e’ rimasta in camera... Vuol dire che sei obbligato a tornare per prendertela... e la prossima volta non dimenticarti Grazia a casa.
Dio benedica te e la tua famiglia.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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