sabato 29 novembre 2008

Quanta strada da quei giorni pionieristici


Era un giorno piovoso dell’aprile 1998 quando ricevemmo una mamma che aveva appena partorito a casa e poi era caduta in coma profondo: io feci l’esame della malaria che risultò positivo ad alta densità. Era un caso di malaria cerebrale. La mamma era sporca di fango e sanguinava a causa di una lacerazione post partum. Decidemmo di lavarla, e di riparare la lacerazione che sanguinava molto. Battezzammo il bambino e lo chiamammo Pasqualino, essendo il Venerdì Santo. Poi la paura mi ritornò, ed insieme a Fr Maurizio decidemmo di portare la paziente all’ospedale di Nkubu: noi non avevamo posti letto ed io mi sentivo totalente inadeguato.

Prendemmo la macchina, ma il Signore aveva un altro disegno: appena fuori Chaaria ci impantanammo nel fango, l’auto affondò in un rigagnolo laterale e non ci fu alcuna possibilità di proseguire. Chiedemmo l’aiuto della gente: vennero in molti con le “panghe”, i badili e le zappe; portarono pietre e spinsero la macchina che faticosamente venne fuori dal fosso con la frizione che puzzava di bruciato. Ritornammo a Chaaria e decidemmo che bisognava provare a fare qualcosa. Mettemmo il chinino in vena, e con sorpresa di tutti, la mamma venne fuori dal coma in meno di 48 ore. L’avevamo messa su una branda in corridoio, dove precedentemente c’era una stufa a legna. La mamma si riprese e tornò a casa con il suo Pasqualino… l’abbiamo vista dopo due anni,ed era in gran forma insieme al suo piccolino.
L’esperienza ci galvanizzò e pensammo che avremmo potuto anche ricoverare alcuni casi selezionati. La seconda paziente ricoverata si chiamava Monica: aveva un tumore del cuoio capelluto e, a causa della radioterapia, ora aveva un enorme cratere da medicare tutti i giorni. Monica rimase con noi per alcuni mesi finchè il Signore la chiamò a sé. La terza paziente era una giovane maestra di Chaaria: si chiamava Florence.
Venne da noi con chiari segni di AIDS: era magrissima, aveva diarrea continua e non poteva mangiare a causa del mughetto che le occupava tutto il cavo orale. Per molto tempo le offrimmo terapia ospedaliera diurna: andavamo a prenderla al mattino nella sua capanna di paglia e legno, dove la trovavamo tutta sporca di diarrea; la pulivamo e poi la portavamo in dispensario dove iniziavamo le flebo e le altre terapie endovenose. Alla sera la riportavamo a casa. L’abbiamo seguita fino alla morte.
esterno1.JPG
... Ora i posti letto sono 160, sempre pieni, e le visite ambulatoriali sono costantemente al di sopra delle 250 al giorno.
Grazie, Signore, del cammino che ci hai fatto fare. Non avevamo piani preordinati. Nessuno avrebbe mai pensato di fondare un ospedale. Ma Tu ci hai guidati, hai fatto crescere la tua creatura secondo piani che ancora ci sfuggono ma che seguiamo con fiducia ed entusiasmo.


chaaria 2007 070.jpgQuesti tre capostipiti sono stati l’inizio di una esplosione: pazienti che fioccavano da ogni parte, nuove richieste, nuovi bisogni, e nuova voglia di imparare, di fare, di rispondere a tali problemi. Chaaria non ha mai avuto un chiaro piano preordinato. Sono stati i pazienti, con i loro bisogni a guidare l’espansione dell’ospedale, che è cresciuto un po’ come un fungo. Ci piace pensare che non siamo stati noi a dare delle caratteristiche alla nostra struttura sanitaria, ma sono stati i malati stessi a modellarsi l’ospedale così come a loro era più utile.
Il Cottolengo Mission Hospital non è partito come una struttura muraria, che poi si è andata via via riempiendo di utenti. E’ stato sempre l’esatto contrario: costantemente senza letti, senza spazi, senza strumenti adeguati, ma assediati dai pazienti, abbiamo cercato, con l’aiuto dei Superiori e dell’Associazione dei Volontari, di espandere e di costruire, per cercare di rispondere in modo adeguato a tutte queste problematiche.
Grazie Signore, del cammino percorso finora; continua a guidarci nel nostro futuro incerto e nebuloso.

Fr Beppe Gaido

Fila.JPG



Nessun commento:


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


Guarda il video....