Antonia (nome di circostanza) e’ venuta da noi per il parto. Ha una cicatrice dovuta ad un cesareo precedente. Facciamo l’eco e ci rendiamo conto che e’ giunta a termine. Alla visita ci sembra che il suo bacino sia contratto, anche se lei sostiene che il primo intervento chirurgico era stato motivato dalla presentazione podalica.
Le parliamo a lungo e cerchiamo di consigliarle un secondo cesareo, sia per l’anatomia della sua pelvi, sia per la cicatrice pregressa. A questo punto pero’ la mamma si irrigidisce ed afferma di volere il parto naturale a tutti i costi. Proviamo a spiegarle, ma lei e’ irremovibile.
Le facciamo firmare la cartella, ma anche questo passo non la dissuade: non ha problemi a dichiarare per scritto che lei rifiuta la soluzione chirurgica. Purtroppo, come ci aspettavamo, il travaglio si prolunga e non procede per il meglio. La dilatazione e’ lenta e la testa del feto rimane alta.
Passa una notte intera senza che Antonia ripensi alla sua decisione. Le vicine di letto affermano che lei e’ convinta che noi vogliamo operarla solo per “prenderle piu’ soldi”. La situazione non cambia neppure quando le diciamo che il battito cardiaco fetale sta cominciando a diventare irregolare.
Verso la sera del secondo giorno in ospedale, quando tutte le linee di allarme e di azione del partogramma sono state oltrepassate, improvvisamente Antonia rompe le acque nel suo letto: e’ lei ad accorgersi del colore verde e tenebroso del suo liquor che ormai e’ diventato denso come una gelatina.
A questo punto comincia a piangere e a chiedere il cesareo d’urgenza. Sono le ore 21: il nostro anestesista non e’ disponibile a venire perche’ si trova molto lontano, e ad aiutarmi c’e’ solo Pinuccia.
Comunque non ci sono alternative. Bisogna fare in fretta. Cesarizziamo la mamma alla velocita’ della luce; tiriamo fuori un bel maschione che da’ qualche accenno di pianto. Terminiamo l’operazione senza complicazioni: lo shock per noi arriva quando andiamo in sala parto ad appurare le condizioni del neonato. Le infermiere della notte lo stanno ancora rianimando: stanno usando l’ambu; stanno massaggiando; hanno gia’ trovato una vena, ma i nostri sforzi sono vani. Dopo aver lottato per piu’ di 2 ore, il battito cardiaco si ferma. Lasciamo l’ambu da una parte; sentiamo un macigno sul cuore; ci sembra di aver fallito tutto.
“Adesso bisogna trovare il coraggio di dirlo alla mamma!”, affermo mentre ancora mi sto asciugando rivoli di sudore che scendono sulle mie tempie. Poi tra me penso che sono stato uno stupido a darle retta. Se mi fossi impuntato, ora avremmo un bambino vivo. Devo essere piu’ duro: se penso che ci sia una indicazione seria, non ascoltero’ mai piu’ una mamma che rifiuta il cesareo solo per ragioni emotive, e senza alcuna base scientifica. Salvare una vita deve essere il fine primario, anche se cio’ puo’ andare contro la decisione del malato, che evidentemente qualche volta non ha ragione.
Fr Beppe
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