domenica 1 marzo 2009

Dal diario di Chaaria


LUNEDI’
…. sono stato chiamato urgentemente a rianimare un bambino di 4 anni, appena arrivato in ospedale da molto lontano: era gonfio come un pallone su tutto il corpo, ma profondamente emaciato sul volto. Durante la rianimazione la mamma era ancora in bagno che si lavava ed indossava l’uniforme dell’ospedale. Purtroppo però le mie mani sono state inutili ancora una volta. Il bambino, probabilmente cardiopatico grave o affetto da insufficienza renale, è spirato davanti a me dopo pochi istanti. Io sono rimasto annichilito e senza parole, come mi capita di solito. Non ho emesso grida o pianto. Sono rimasto di pietra. Quando la mamma è uscita dai servizi, ancora umida dopo la doccia, mi si è avvicinata, ha guardato il bimbo, poi si è appoggiata con il suo braccio contro il mio, e mi ha chiesto: “se n’é andato via?”. Io ho posto la mia mano sulla sua spalla e le ho sussurrato: “ Sì, se n’è andato così in fretta e non tornerà più”. Allora la disperazione della mamma è stata grande, ma muta. Ha toccato il corpicino ovunque; ha posto la sua bocca vicino a quella del figlio per sentire se ancora respirava. Le lacrime scendevano copiose, ma lei non diceva neppure una parola. Dopo attimi che mi sono parsi un’eternità mi ha fatto solo una domanda: “E’ andato in Paradiso?”. Io mi sono sentito un nodo alla gola che mi ha impedito di parlare per un po’. L’ho solo tenuta per un braccio ed ho alla fine balbettato: “certamente!”.

Sono ancora sotto la forte impressione emotiva di quanto è appena successo anche se purtroppo è una scena quasi quotidiana per noi: quanta sofferenza innocente, quanti bambini che si potrebbero salvare se solo fossero nati in Italia. Quante giovani mamme non ce la fanno e soccombono alla malattia.

MARTEDI’… ho ricoverato una ragazza con un forte mal di pancia. Alla visita ginecologica ho trovato un bastoncino inserito nell’utero (metodo tradizionale di aborto); dopo aver estratto il bastoncino, la ragazza ha partorito (6° mese di gravidanza). Il feto è uscito con il sacco amniotico intatto: noi siamo rimasti stupefatti perché il feto si muoveva ancora nella acque calde. Abbiamo rotto la membrana ed il bimbo ha continuato a dare qualche colpo di respiro… ma poi non ce l’ha fatta.

MERCOLEDI’… Il piccolo John ha una gravissima anemia da malaria. Fortunatamente abbiamo sangue ed iniziamo subito a trasfondere; verso le 19.30, mi sono accorto che la mamma aveva aperto il gocciolatore al massimo pensando di dare più sangue al bambino e di farlo guarire più in fretta…
Mi sono precipitato quando già il piccolo era agonizzante: gli erano scoppiati i polmoni e gli usciva sangue dalla bocca e dal naso (noi medici diciamo che aveva avuto un edema polmonare). Mentre lo rianimavo (senza guanti…non c’era tempo) il bimbo mi guardava con una ingente “fame d’aria” e con occhioni spaventati e imploranti; e quando già speravo che se la sarebbe cavata, è spirato tra le mia mani quasi improvvisamente. Sono andato in crisi…volevo scappare senza parlare con la mamma; ma subito mi hanno chiamato perché c’era una donna in travaglio con il battito cardiaco irregolare. L’ho visitata in barella e le ho detto di stare lì; intanto noi avremmo preparato per il cesareo. Non so cosa le sia passato per la testa: ha deciso di andare al gabinetto fuori nei servizi esterni normalmente usati dai pazienti ambulatoriali e situati vicino al cancello. Quando torno non la trovo più; la cerchiamo ovunque…non c’è.
Dopo 15 minuti sento chiamare dal buio del cortile; cerco il guardiano che ha la torcia elettrica; andiamo e ci rendiamo conto che aveva partorito nella toeletta. Il bambino, ancora collegato al cordone, non respirava e la placenta era ancora dentro. Abbiamo preso una carrozzina, io tenevo il bambino per i piedi e lo percuotevo sulla schiena. In sala parto abbiamo tagliato il cordone ombelicale e poi abbiamo iniziato la rianimazione: ossigeno, farmaci, ambu… Dopo 45 minuti il bimbo ha iniziato a respirare da solo e dopo un’ora il primo grido. Intanto Ann aveva sistemato la mamma, che sostanzialmente stava bene. Tra me pensavo: ne ho perso uno, ma ne ho salvato un altro.

GIOVEDI’…arrivo in ambulatorio e mi trovo davanti una giovane donna tutta coperta di polvere. E’ in coma, ed ha un respiro molto affannoso. Sembra stia facendo gli ultimi tentativi di rimanere in vita. E’ tutta gonfia ed è spessissimo preda di violente convulsioni. Quasi senza pensarci le metto una mano sulla pancia e mi rendo conto che è gravida ed è a termine.
Mwendwa, questo il suo nome, proviene da Rikana, un villaggio poverissimo fatto di capanne di paglia, a non più di 14 Km da Chaaria. E’ stata trasportata su un carretto trainato da una mucca. Questo ha reso il tragitto molto lungo e difficoltoso: è arrivata a Chaaria stremata. Mi rendo subito conto che si tratta di una complicazione molto seria della gravidanza, chiamata eclampsia, ma nonostante i nostri tentativi di terapia, la giovane donna è spirata davanti a me, prima che la sala operatoria fosse pronta per un cesareo d’urgenza. Io mi sento molto male, ma l’infermiera che è con me prende il fetoscopio e lo mette sulla pancia della mamma: poi mi urla che il battito del piccolino c’è ancora e che devo agire subito. Quasi come un automa, mi metto i guanti e velocemente apro l’addome della mamma che, ormai in paradiso, non ha bisogno di sala operatoria come di anestesia e tiriamo fuori un bambino in pessime condizioni. Lo rianimiamo a lungo massaggiandogli il piccolo torace e insufflando ossigeno “con l’ambu”, ma purtroppo il bambino ci lascia in meno di due ore.
Una doppia sconfitta di cui cerchiamo di darci una ragione: è arrivata troppo tardi!... qualche ora fa sarebbe stato tutto diverso!

VENERDI’… Certo, lavorare in Africa insegna molte cose, soprattutto ci rende consapevoli dei nostri limiti, di quello che non sappiamo, e di quello che avremmo potuto far meglio. Il rullo compressore della quotidiana fatica spesso smaschera elementi bui del nostro carattere: a volte si corre tutto il giorno, cercando di fare del proprio meglio, e poi verso sera, quando le energie sono ormai “in riserva”, si perde il controllo, si diventa nervosi e ci si scarica contro un paziente che ha il solo torto di essere capitato sotto le nostre grinfie nel momento meno opportuno. Anche questi sono comunque momenti utili: all’inizio ci si tormenta nel senso di colpa, si vorrebbe richiamare indietro il malcapitato che invece è già tornato a casa “con la coda tra le gambe”; si corre il rischio dello scoraggiamento, pensando di aver rovinato in un momento quanto costruito durante una faticosa giornata di servizio e di donazione. Poi però la pace del cuore ritorna, e si accetta il fatto che non siamo perfetti ed abbiamo bisogno ogni giorno della misericordia di Dio.

SABATO… il cercapersone squilla e l’infermiera mi dice di aiutarla per un bambino che sta morendo di anemia grave. Guardo l’ora… miseria, sono appena le 3 del mattino. Che fare? Qui non c’è il medico di guardia e non ci sono altri da chiamare. Scendo dal letto e mi dirigo all’ospedale nel buio. Le stelle sono meravigliose. Sono davvero miliardi e miliardi. La via lattea si staglia sul cielo nero e sembra veramente una strada. I nostri cani mi fanno le feste e mi saltano addosso, senza accorgersi che io quasi non sto in piedi dal sonno.
Arrivato in ospedale Lydia mi dice che il bambino è così anemico da sembrare bianco come un lenzuolo, e che lei proprio non riesce a trovare la vena. Con calma ci provo io e dopo alcuni tentativi falliti incannulo con successo la vena giugulare. Mi dirigo quindi in laboratorio, prendo i reagenti e testo il gruppo sanguigno io stesso, perché di notte non abbiamo tecnici di guardia per gli esami urgenti. Il bambino è A positivo. Chiedo alla mamma se poteva donare perché non c’era sangue in frigo. La donna però rifiuta con forza: mi dice di essere debole perché il bimbo aveva solo 6 mesi e lei stava ancora allattando. Chiedo allora al papà che era nell’atrio fuori ad aspettare. Anche lui non vuole farsi prendere il sangue: asserisce in modo poco credibile di aver donato per un altro parente non più di 20 giorni prima. Probabilmente non vuole donare perché ha paura d’essere testato per HIV. Lydia mi dice di fare in fretta perché il bambino è gravissimo: la misura dell’emoglobina è paurosa: 2.8 g/dl (una persona normale ne ha tra i 12 e i 14 grammi). Istintivamente dico all’infermiera di andare a prendere l’occorrente perché avrei donato io: in pochi secondi ero sdraiato sulla “sedia del dentista” con una vena incannulata che riempiva velocemente quella sacca di sangue tanto necessaria al piccolo.
Iniziamo la trasfusione quando il bambino è gravissimo, ma ci proviamo.
Lydia mi dice di andare a riposare un po’: avrebbe seguito lei l’evoluzione del caso, ora che la vena c’era ed il sangue stava lentamente gocciolando nel fragile corpicino.

DOMENICA… Fortunatamente sono riuscito a partecipare alla Messa con i malati nella lavanderia dell’ospedale. E’ sempre bella questa Eucaristia, celebrata nel cuore della nostra casa della sofferenza e della speranza, in mezzo a tante persone che soffrono e che ripongono in noi tanta fiducia. Quando sono seduto sulle panche e guardo tutti quei volti segnati dalla malattia, quelle mamme che allattano bambini più o meno malconci, quelle puerpere così orgogliose del dono di vita appena ricevuto da Dio, allora sento che la mia Messa è vera, è un reale incontro con quel Dio che mi ha donato forza e luce per aiutare tante persone nel suo nome. L’Eucaristia con i malati è come il completamento della settimana, in cui ringrazio Dio per tutte le volte in cui mi ha aiutato a non fare pasticci, in cui mi ha dato luce per dare la terapia corretta, in cui mi ha dato la forza per alzarmi anche di notte per rispondere ad una chiamata, in cui ha guidato la mia mano in sala operatoria anche quando a metà intervento avrei voluto svenire perché non ero più in grado di continuare.
Spesso poi, come oggi per esempio, la Messa prosegue anche dopo, quando Dio mi viene incontro e mi chiede di continuare a riconoscerlo in coloro che soffrono e che hanno bisogno del mio aiuto, anche se è domenica, anche se avrei voluto riposare e prendermi qualche momento di svago.

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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