martedì 21 aprile 2009

La cappella di Madpourdit


Questa mattina sono stato svegliato dal canto del gallo. Mi sembrava di averlo sul letto, tanto forte era il chiasso che faceva. La capanna in cui dormo infatti non ha vetri alle finestre, e tra la porta ed il suo stipite ci sono circa 5 cm.
Subito dopo e’ iniziato il suono della campana: un rumore stonato di latte percosse da un bastone.
Mi sono svegliato in fretta per non arrivare in ritardo alla Messa. La Chiesa e’ una tettoia che si basa su tanti tronchi piantati nel pavimento. C’e’ un solo muro, quello dietro all’altare, in cui e’ anche immurato il tabernacolo. Il resto del perimetro e’ costituito da canne di bambu’.
Ci si siede su semplici panche, ma l’atmosfera e’ veramente raccolta. Il tetto e’ costituito da lamiere ondulate su cui e’ anche fissato uno strato di erba secca, per evitare che il solleone arroventi la testa di coloro che stanno pregando.
La Messa e’ stata celebrata in Inglese, dall’unico membro sacerdote della comunita’ comboniana: ha usato l’ Inglese, ripetendo alcune cose in Dinka, la lingua della tribu’ che vive in questa parte del Sud Sudan.
Con noi a pregare c’erano anche alcune persone del villaggio: tutti erano vestiti in modo poverissimo, per lo piu’ in abiti tradizionali. L’unico bambino presente portava probabilmente una camicia di suo padre che gli arrivava fin sopra le ginocchia; non indossava nient’altro, neppure le scarpe.
I canti erano accompagnati dal suono di tamburi percossi da dei bastoni, come le stecche di una batteria.
Che bella e’ stata questa Messa! Mi ha dato la forza per iniziare la giornata sul piede giusto, una giornata che poi si e’ rivelata pesantssima, con circa dieci ore tra interventi chirurgici e spiegazioni da parte di Tom.
Prima del tramonto sono pero’ riuscito a scappare per tre quarti d’ora: mi sono inoltrato a piedi per il primo sentiero che mi sono trovato davanti, con l’unico scopo di vedere dove e come vive la gente. Sono stato sorpreso dalla cortesia di chi mi incontrava: anche i bambini non mi gridavano dietro, ma si avvicinavano un po’ impauriti, sorridendomi e chiedendomi di stringere loro la mano. Le donne procedevano a gruppi con la tanica dell’acqua sulla testa, acqua che avevano raccolto ad una delle tante pompe che varie organizzazioni internazionali hanno costruito durante la guerra. Gli uomini erano gentili: qualcuno provava anche a scambiare due parole con me in Ingese; altri continuavano a far pascolare la loro unica mucca dalle corna lunghissime, ma accennavano ad un segno di saluto.
Mi sono sentito di casa; e non ho provato paura, neppure quando mi sono accorto che la Missione non si vedeva piu’, cancellata dall’alta sterpaglia. Ho visto le loro capanne di paglia, i loro bambini nudi che giocano con niente, ed ho pensato a quanto io spesso sia ingrato nei confronti di Dio che mi ha dato tanto: davanti a scene come queste, di fronte a creature che non hanno nulla, come posso ancora lamentarmi?

Fr Beppe

Nessun commento:


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


Guarda il video....