In questi giorni ci siamo nuovamente lanciati a fare prostatectomie, un intervento per il quale non sono ancora riuscito a superare la paura e l’ansia di non riuscire a controllare l’emorragia che ne consegue per giorni.
Con i chirurghi di Messina abbiamo prima fatto un tentativo di approccio retropubico con la tecnica di Millin, ma ci siamo accorti che per Chaaria non e’ la scelta migliore. Le nostre prostate sono troppo grandi, e lo spazio su cui operare molto ristretto nell’approccio retropubico. Inoltre la luce della nostra scialitica e’ piuttosto povera e difficile da orientare nell’angusto spazio ottenuto nella tecnica extravescicale.
L’intervento di Millin e’ risultato per noi troppo ansiogeno in quanto a volte anche un sanguinamento non eccessivo puo’ diventare un vero problema a causa della difficolta’ di dare dei punti emostatici in quell’area ristrettissima.
Siamo quindi ritornati alla vecchia tecnica insegnataci sia da Giancarlo Giaccardi, sia da Max Albano che da Pietro Rolandi: la prostatectomia transvescicale secondo Freyer. Ci sembra complessivamente piu’ semplice dal punto di vista operatorio e da quello del controllo della emorragia.
Certo questo metodo e’ poi molto impegnativo nel postoperatorio: il paziente infatti deve essere seguito molto bene con il lavaggio continuo della vescica per vari giorni. C’e’ la possibilita’ della formazione di coaguli che possono otturare i cateteri e rendere vano l’intervento a causa della apertura della breccia vescicale. Il carico di lavoro nursing nel post-operatorio e’ certamente molto piu’ gravoso dell’intervento stesso. Anche in sala comunque non si e’ mai tranquilli: l’escissione della prostata (quella di oggi grande come un pompelmo) si fa completamente alla cieca e l’emorragia alle volte pare inarrestabile.
Considerando poi il fatto che qui non si trovano le sacche di fisiologica per il lavaggio continuo, si pongono ancora altre difficolta’ spesso non facili da superare. Dobbiamo continuamente bollire acqua e travasarla in sacchetti per nutrizione enterale... e ne abbiamo relativamente pochi dall’Italia. Questo vuol dire che per ogni malato usiamo una sacca sola, che poi riempiamo di volta in volta con la nostra acqua bollita.
Anche gli schizzettoni sono difficili da trovare qui in Kenya, per cui li autoclaviamo e li usiamo piu’ volte finche si bloccano completamente.
La degenza e’ relativamente lunga. Infatti il catetere deve essere tenuto in vescica almeno per otto giorni, ed in seguito ci sono ancora altri drenaggi da asportare successivamente. Bisogna reinsegnare a trattenere l’urina, in quanto e’ comune una incontinenza di alcuni giorni, a seguito dell’asportazione del catetere. I pazienti sono inoltre molto anziani, e sovente confusi nel post-operatorio. Non e’ infrequente che si tirino via drenaggi e cateteri, aggiungendo altre difficolta’ ad una tecnica gia’ molto impegnativa sia di giorno che di notte.
Problema non indifferente e’ il reperimento del sangue da trasfondere: i vecchietti normalmente non partono da livelli molto elevati di emoglobina ed in media abbiamo bisogno di una o due sacche si sange per intervento.
La postatectomia e’ comunque un grandissimo bisogno della nostra gente, in quanto moltissimi sono i vecchietti portatori di catetere a permanenza per anni, a causa di ritenzione urinaria. Ce ne sono anche parecchi che da anni girano con un “sovrapubico” sporco e infetto. Per loro lo spettro dell’insufficienza renale e’ tutt’altro che remoto.
Considerando che Chaaria vorrebbe rispondere, nei limiti del possibile, ai bisogni primari della gente, soprattutto di chi non ha mezzi economici sufficienti per rivolgersi ad ospedali migliori del nostro, riteniamo che dobbiamo davvero insistere e non scoraggiarci nel campo delle prostatectomie, anche se questo indubbiamente comporta un “surplus” non indifferente di lavoro, di ansie e di paure.
Fr Beppe
Nessun commento:
Posta un commento