venerdì 21 maggio 2010

Per Francesco

Carissimo Francesco,
Ho affidato questa letterina a Fr Beppe che va in Italia, soprattutto per dirti che ti sono tanto grata per il sostegno che continuamente offri alla mia crescita umana, spirituale e scolastica.
Le vacanze sono finite e da circa dieci giorni siamo ritornati a scuola. Durante il periodo in cui le scuole sono rimaste chiuse, ho vissuto con una mia sorella sposata. La sua famiglia vive nel villaggio di Kathwene, a 10 chilometri da Chaaria, ai piedi della collina che vedi nella foto.
Ora sono rientrata, e, come tu saprai, qui da noi la scuola e’ sotto forma di convitto, per cui a casa ci andro’ nuovamente ad agosto.
La scuola e’ molto dura ed essenziale: cibo assolutamente spartano; studio e lavoro; disciplina forse incredibilmente severe per standard europei... ma la mia vita e’ stata molto difficile dalla nascita, per cui non faccio molta fatica ad adattarmi.
Sono partita da molto lontano, non solo geograficamente... e quindi tanta strada rimane ancora da fare: infatti sono in terza elementare.
Avrei voluto fare piu’ in fretta e scriverti che magari ho gia’ terminato la quinta; ma onestamente non ce la faccio a studiare piu’ velocemente. Mi sforzo, ma a volte non capisco neppure quello che gli insegnanti dicono... inoltre non riesco a ricordare.
Mi sento sempre un po’ umiliata dal fatto di essere nella stessa classe con bambini assai piu’ giovani di me: per me e’ brutto anche non sapere la mia eta’! Ma ad occhio e croce io credo di avere circa 15 anni... e sono nei banchi insieme a bimbi di 8-9 anni.
Non e’ facile! Normalmente non partecipo alle danze che la mia classe ogni tanto organizza per animare la Messa della domenica, perche’ mi sento fuori posto: come farei a ballare insieme a bambini che mi arrivano all’ombelico?!
I maestri mi dicono spesso che devo ripetere un trimestre perche’ non sono al livello degli altri miei compagni di classe; ma io a volte sono profondamente in crisi: nel mio villaggio le ragazze si sposano a 17-18 anni, qualcuna anche prima... questa e’ la nostra cultura, ed e’ anche un modo per sgravare la famiglia di un peso economico!
Quando saro’ nell’eta’ da “maritare”, io forse non avro’ neppure finito la scuola dell’obbligo. Mi piacerebbe continuare a studiare, magari diventando io stessa una insegnante... ma la strada mi pare ancora infinita! Temo di diventare una delle tante donne sposate nei villaggi, le quali a mala pena sanno apporre una firma e per tutta la vita hanno come unica aspirazione quella di badare ad una lunga fila di bambini.
Come vedi dalla foto, caro Francesco, ho chiesto ai miei insegnanti di permettermi le trecce anche a scuola, in quanto sono ancora molto “complessata” per le brutte cicatrici che si vedono sulla nuca e sul collo. Cerco di coprirle con i capelli per evitare le continue domande inutili e dolorose dei miei compagni di scuola, i quali comunque non potrebbero mai capire il dolore da me provato quando sono stata piu’ volte colpita dal machete di quel malato di mente.
Ora ritorno a studiare e chiudo questa letterina. L’ho scritta in kiswahili perche’ anche l’inglese per me e’ ancora un problema, soprattutto se devo scriverlo... ma so che qualcuno la tradurra’ in italiano per me.
Prego sinceramente per te, Francesco, e per tutte le persone che mi hanno fatto del bene, a partire da quel terribile dicembre 2007 che ha segnato la mia vita per sempre.

Josphine Kawira




PS Venerdi’ 14 maggio, all’ospedale Aga Khan di Dar Es Salaam (Tanzania) e’ mancata la prima suora cottolenghina africana. Si tratta di Sr Consolata Gitiri, superiora della comunuta’ di Kisarawe da 6 anni.
Sr Consolata aveva 60 anni ed era originaria di Embu, in Kenya.
La ricordiamo nella nostra preghiera.



Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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