sabato 25 settembre 2010

Luna piena

Sono le due di mattina ed il cercapersona gracchia ripetutamente. Avevo messo dei tappi di cera nelle orecchie perche’ dei cani in calore sotto la mia finestra non mi lasciavano prendere sonno. Ci e’ quindi voluto un bel momento per rendermi conto che quella specie di sirena non faceva parte del sogno movimentato che stavo facendo.
Mi giro ed afferro pigramente il motorola. Guardo fuori dalla finestra e vedo una luce soffusa che mi fa quasi sperare che sia ormai quasi l’alba: “magari ho gia’ dormito a sufficienza, e mi e’ sembrato che mi fossi addormentato da un minuto solo perche’ ho riposato bene”, ho pensato ingenuamente.
Evanjeline, con tono di voce squillante, dice le due parole fatidiche: “abbiamo un cesareo”.
Cerco di scrollarmi di dosso il torpore, ed osservo le lancette della sveglia. Senza occhiali mi ci vuole un attimo per mettere a fuoco il piccolo quadrante dell’orologio... poi quasi non voglio credere a quello che i miei occhi stanno vedendo. Sono le 2 di mattina.
“Ancora una volta e’ l’ora X, la peggiore di tutte. Non hai dormito a sufficienza e sei sicuro che non riprenderai sonno dopo l’intervento”, ripeto a me stesso quasi per autocommiserarmi.
Desidererei svegliare gli altri Fratelli, in un moto infantile di vittimismo, che vorrebbe far loro capire quanto dura sia la mia vita; ma poi mi sveglio completamente con alcune manciate di acqua fredda sul viso, e mi rendo conto della stupidita’ di quanto ho pensato.
Mi limito invece a chiamare Antonio che dorme nella camera adiacente alla mia, lasciando a lui l’incarico di andare a disturbare il riposo dell’assistente.
Io mi avvio verso l’ospedale, sentendo sulla mia “pelle d’oca” il freddo pungente di una notte dal cielo limpido. Mi guardo attorno e vedo tutto chiarissimamente, come se fosse pieno giorno. Mi osservo una mano e penso: “si potrebbe addirittura leggere un libro al chiarore di questa luna piena”.
Alzo gli occhi e la vedo troneggiare in cielo, pallida, luminosa e stupenda. La sua luce riflessa e’ cosi’ forte che il cielo non e’ piu’ nero, ma di un grigio quasi fosforescente. Inoltre i miliardi di stelle che solitamente trapuntano il nostro cielo equatoriale sono anch’esse scomparse, ricoperte ed annichilite dalla luce prepotente della luna.
Mi ero abituato ad essere accompagnato fino alla porta del dispensario dal nostro nuovo cagnolino, un bastardino tutto affetto e scodinzolamenti, nero ebano come la maggior parte dei nostri gatti. Stanotte pero’ non lo vedo: lo abbiamo trovato morto nella “shamba”, ed ancora non sappiamo se e’ stato ucciso dai morsi di cani randagi piu’ grandi di lui, o se sono stati i vermi intestinali di cui soffriva che lo hanno ammazzato. Pensare a questa piccola creatura che aveva imparato a volermi bene, mi da’ un forte senso di tristezza, e mi viene quasi da piangere: “meglio non avere piu’ altri cani. Ho sofferto molto per la morte dei due pastori tedeschi, ed ora la perdita di questo piccolo cucciolo a cui mi ero gia’ legato molto, aumenta il dolore”.
Giungo alla “sala operatoria” dove Dorothy e’ pronta con la paziente in posizione per la spinale. La povera mamma ha contrazioni continue e dolorosissime, e non riesce a tenere alcuna postura. Io invece ho bisogno che stia ferma e che si rilassi, al fine di riuscire ad infilare con l’ago spinale il sottile spazio tra le sue vertebre gia’ artrosiche a cause dei duri lavori agricoli portati avanti fin dall’infanzia.
Bisogna fare in fretta perche’ il battito cardiaco fetale non e’ buono, e rischiamo di perdere il bambino; ma non riesco assolutamente a farle la spinale. Spreco tre aghi, che getto via ormai tutti storti, in quanto la mamma si contorce mentre lo strumento e’ gia’ piantato nella sua schiena.
Sto per “buttare la spugna” ed arrendermi ad una anestesia generale che sarebbe stata molto ansiogena, visto che non era mai successo ad Antonio di seguirne una da solo, quando, come per miracolo, trovo uno spazio appena al di sopra del sacro: vedo scorrere attraverso l’ago gocce del liquido spinale che avevo tanto cercato, e mi affretto ad iniettare il farmaco.
Ma i problemi continuano. Le contrazioni cessano quasi subito dopo l’anestesia, ma la donna non riesce a capire la differenza tra una generale ed una  “rachi”, per cui pensa di dover dormire, e non risponde alle nostre domande che avrebbero dovuto aiutarci a stabilire il corretto livello raggiunto dal farmaco, al fine di evitare arresto respiratorio.
Decido allora di mettere la paziente in posizione di sicurezza e di istruire Antonio sul “da farsi” in caso poi l’operanda provasse dolore durante il cesareo.
Si tratta di una situazione molto complessa anche dal punto di vista chirurgico. Due cesarei pregressi hanno reso quell’addome un vero e proprio campo di battaglia. Ci sono molte aderenze e tutto sanguina “solo a guardarlo”.
Il bambino pero’ nasce senza problemi. E’ un grosso maschione che fa la pipi’ tra le mie mani mentre lo sculaccio.
Le difficolta’ sono tutte nella chiusura dell’utero e dei vari strati di tessuto ad esso sovrastanti. Ogni punto causa un ematoma, o un rivolo di sangue che non accenna a diminuire; anzi... piu’ cedi alla tentazione di cucire ancora, piu’ il ruscello diviene un fiume.
Sudiamo, ci spaventiamo a volte, diventiamo anche molto tesi... ma alla fine abbiamo ragione delle emorragie.
La spinale ha comunque “preso bene”, nonostante la brutta partenza, e la malata e’ stabile, a parte qualche conato di vomito prontamente controllato dal vecchio plasil.
Siamo ormai alla fascia e comincio e ripensare al mio letto... ma improvvisamente la mia assistente dice: “devo uscire... altrimenti svengo in sala”.
Non ci sono alternative. Vorrei che “si lavasse” Dorothy, ma lei mi dice che i camici sono ancora tutti in autoclave.
Non c’e’ altro da fare che continuare da solo: suturare, afferrare i tessuti con delle pinze, tagliare il filo dopo il punto.
Si tratta di una complicazione in piu’ che prolunga l’operazione. Per la cute affido le forbici ad Antonio, che, pur essendo fuori dal campo sterile, mi taglia i fili, facendo attenzione di non toccace l’area verde.
E così arriviamo alla fine anche di questo tribolato cesareo. Ora l’infermiera che era svenuta ha ripreso il suo colorito normale e sta bene: è forse stato il caldo o la stanchezza.
Mi riavvio vero camera mia quando sono ormai le 4.
La luna e’ ancora li’, padrona del cielo.
Oltre ad essa scorgo solo una stella, bellissima nella sua luce intensa.
Sarà Sirio, la “luminosa stella del mattino” di biblica memoria?
Da quando sono in Africa continuo a subire il fascino della luna piena, che mi ipnotizza e mi attira a contemplarla per lungo tempo: fissare lo sguardo su di essa mi dà pace e mi rilassa, un po’ come mi succedeva in passato quando mi sedevo su una scogliera in Liguria a guardare per ore il mare aperto, senza pensare a niente.
La luna di Chaaria e’ stregata e solo qui penso di aver capito autori come il Leopardi che “cantano alla luna in ciel”.

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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