domenica 24 ottobre 2010

Antropologia da dilettante

Non so se lo sapete, ma anche in Tanzania c’e’ una etnia chiamata Meru.
Essi prendono il nome dalla montagna vulcanica che sovrasta Arusha, dove pare essi si siano insediati all’incirca mille anni fa, iniziando una attivita’ in parte agricola ed in parte legata all’allevamento del bestiame.
Non so se esistano legami con i Meru del Kenya, pur essendo entrambe etnie di montanari, dediti a simili attivita’ per il loro sostentamento.
Il loro linguaggio e’ comunque molto differente, e dal punto di vista linguistico i Meru della Tanzania sembrano intimamente legati ai Maasai.
Girando per Arusha e’ molto facile vedere insegne simili a quelle che potremmo trovare qui nel nostro capoluogo di distretto: per esempio ad Arusha sono varie le “Meru primary schools”.
Inoltre esiste ad Arusha un “Meru District Hospital”, proprio come da noi.
Questa cosa spiega anche la ragione per cui varie lettere a noi spedite dall’Italia siano state inviate per sbaglio in Tanzania, e giunte finalmente a noi dopo molti mesi.
Considerando che anche l’etnia Kisii in Kenya, molto piu’ a Sud di Meru, in un’area confinante con il “Maasai land”, pare essere costituita da un gruppo che si e’ separato dai Meru in tempi remoti, non e’ impossibile che pure i Meru di Arusha siano stati originati da una scissione di tribu’ che vivevano piu’ a Nord, una scissione ed una migrazione magari legata alla ricerca di terre piu’ fertili e di pascoli ricchi d’acqua.
Non lo so se questa teoria e’ scientifica o meno. Se c’e’ qualche antropologo tra i lettori del blog potrebbe aiutarmi a comprendere se si tratta solo di omonimia o di origini comuni.
Nella foto potete vedere il Monte Meru sullo sfondo di una bella radura. Il Monte Meru e’ circondato da torrenti e laghi, e questa e’ la ragione della vegetazione lussurreggiante.

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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