sabato 30 ottobre 2010

Pet therapy

Da un po’ di tempo abbiamo iniziato l’esperimento della “pet therapy” per i nostri handicappati mentali. Come vedete dalla foto, abbiamo iniziato con una grossa tartaruga.
Avevamo pensato anche ad un cagnolino, che purtroppo e’ morto in tenera eta’.
I Buoni Figli hanno “preso bene” la tartaruga, e spesso la guardano e se ne prendono cura, nutrendola con insalata e togliendola dai luoghi pericolosi.
Avevamo timore che alcuni di loro, non comprendendo veramente che cosa sia una tartaruga, la pestassero nelle loro corse... vedi per esempio Moris!
Ma ci siamo resi conto che la rispettano in pieno... ed anche Moris fa un bel salto per evitarla, nel caso la tartaruga venga a trovarsi sulla traiettoria delle sue corse. Ci pare una bella cosa.
Proveremo nuovamente con un cagnolino, e speriamo che stavolta possiamo avere maggior successo.
I gatti, pur cosi’ numerosi a Chaaria, non possono essere usati per la “pet therapy”. Normalmente nascono nella nostra shamba e si avvicinano a noi molto tardi, quando ormai hanno sviluppato in carattere indipendente e molto “selvatico”.
Ci siamo resi conto che i ragazzi handicappati amano gli animali. Alcuni di loro, come per esempio Simon, si prendono cura delle galline e dei conigli, come terapia occupazionale.
Per questo ci pare che la “pet therapy” sia una via da perseguire, per tenerli occupati e calmi e per dare loro momenti di gioia.
La ragione per cui leggete il nome Cottolengo sul guscio della tartaruga e’ dovuto al fatto che essa a volte scappa fuori dal recinto della Missione... e quando la gente ce la riporta, dice che si tratta di un altro animale, e pretende di essere pagata nuovamente. Per evitare queste piccole truffe abbiamo pensato di metterle questo segno di riconoscimento indelebile.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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