lunedì 28 marzo 2011

La gettata di cemento

Il cantiere sembra un formicaio. I muratori sono oggi piu’ di 30. Penso abbiano affittato o preso in prestito tutte le carriole che han potuto trovare in Chaaria.
Oggi poi si sono ammodernati moltissimo, affittando da un’altra ditta una betoniera.
Il loro lavoro e’ frenetico. Corrono su e giu’ dai pontili con le loro carrette cariche di cemento appena impastato e lo riversano sull’appezzamento dove sara’ il pavimento della sala operatoria.
Il capomastro li fa rigare dritto e li fa correre dal mattino alla sera... a volte mi sembra persino eccessivo data il caldo soffocante ed il solleone di questi giorni in cui ha smesso stranamente di piovere dopo pochissimi giorni di promettenti temporali.
Quando lo vedo comandare gli operai a bacchetta, mi sento male per loro... mi pare di rivedere alcune scene dell’epopea di “Radici”, ogni volta che Kunta Kinte tentava di rialzare la schiena o rallentare il ritmo nelle piantagioni di cotone.
Meno male che il capomastro e’ un kenyota e non un MZUNGU.
A parte queste piccole condiderazioni di tipo sociologico, sulle condizioni di lavoro di quei giovani uomini (...e qualche donna sfortunatamente non ritratta nella foto), e’ indubbiamente una grande gioia per noi vedere che la sala operatoria cotinua a crescere a ritmi serrati.
E’ una responsabilita’ verso coloro che hanno collaborato economicamente (l'Associazione Volontari Mission Cottolengo e tantissimi benefattori), ed e’ una grande soddisfazione nella speranza che presto potremo operare i nostri malati in un ambiente piu’ dignitoso e sicuro.
Sara’ bello anche offrire ai chirurghi un ambiente di lavoro meno spartano e piu’ corrispondente alle esigenze minime di una chirurgia moderna.

Fr Beppe Gaido








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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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