venerdì 27 maggio 2011

Cynthia

Avevo conosciuto Cynthia quasi dodici anni fa, quando era stata portata al nostro dispensario da una mamma disperata: era in coma ed era scossa da terribili convulsioni.

Cynthia e’ stata il mio primo caso pediatrico di malaria cerebrale... allora aveva circa 10 anni.

Ricordo come se fosse oggi, che non le si poteva trovare alcuna vena, e, per la prima volta nella mia vita, sono riuscito ad incannulare una giugulare.

Cynthia e’ stata ricoverata insieme alla sua mamma nel corridoio del dispensario, perche’ allora non avevamo ancora alcun reparto. E’ rimasta in coma per quasi una settimana, ma poi miracolosamente si e’ ripresa senza sequele e senza danni cerebrali.

Da allora si e’ cementata una forte amicizia, sia con me che con la mia mamma, nei mesi in cui mia madre era a Chaaria.

Cynthia passava spesso dall’ospedale dopo la scuola; si sedeva in corridoio, mi faceva un sorriso e poi stava un po’ con me. Se mia madre era a Chaaria, si sedeva accanto a lei senza parlare per ore ed ore.

Piu’ volte poi la piccola Cynthia mi ha invitato a casa sua a pranzo, e sua madre ha sempre visto di buon occhio questa amicizia.

Poi naturalmente Cynthia e’ cresciuta, si e’ fatta il fidanzato, ha finito di studiare ed ha trovato un lavoro a Nairobi. Ci siamo quindi un po’ persi di vista, come e’ normale che succeda.

Me la sono ritrovata davanti agli occhi oggi, e sono scoppiato a piangere senza riuscire a fermarmi.

L’avevano messa in una bara bianca, ma la foto che in chiesa troneggiava sopra il feretro era sostanzialmente uguale a come ricordavo Cynthia alcuni anni fa: occhioni enormi e penetranti, fattezze bellissime... solo che ora i suoi capelli non erano piu’ rasati alla maschietto, ma erano in lunghe trecce che le cadevano sulle spalle.

La mamma mi ha voluto al funerale, e mi ha comunicato personalmente il suo desiderio che io fossi presente alla cerimonia.

Il fatto che una madre che aveva appena perso la seconda figlia (un’altra era stata uccisa dalla malaria celebrale che invece aveva risparmiato Cynthia anni prima), mi ha confuso terribilmente.

Sono stato con Cynthia solo 45 minuti: non potevo di piu’ a motivo dell’ospedale!

Ma la mamma ha apprezzato la mia presenza, cosi’ come il pastore metodista che mi ha voluto vicino alla bara ed ha insistito perche’ parlassi alla sua comunita’ cristiana. E’ stato troppo duro per me, e dalla mia bocca sono usciti solo pensieri confusi, mescolati alle lacrime.

Cynthia era incinta. Aveva trovato un lavoretto a Nairobi. Alcune sere fa, mentre faceva scaldare l’acqua con una resistenza elettrica, e’ stata fulminata da una scossa. Mi hanno detto che l’han trovata accartocciata dalla corrente, ma ancora in piedi, irrigidita dall’elettricita’ e dalla morte.

Non riesco a pensare a che tipo di morte sia stata; a che attimi tremendi deve aver trascorso prima di morire... ma in quel momento non c’era nessuno in casa!

E poi quel bimbo che ora e’ sepolto nel ventre senza vita di Cynthia! Deve essere stato tremendo anche per lui, visto che l’elettricita’ deve aver contratto quell’utero spasmodicamente, fino a sofforare il feto.

Dopo il funerale, mentre a piedi mi recavo nuovamente verso l’ospedale, la gente di Chaaria tentava di consolarmi: “quando Dio chiama, non c’e’ niente da fare... bisogna andare!”

Certamente hanno ragione loro, con il loro fatalismo.

A me ritorna continuamente in mente quel volto di bambina con gli occhioni grossi... un volto che una volta ho tirato fuori dalle contrazioni delle convulsioni epilettiche, ma che ora non rivedro’ mai piu’.



Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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