lunedì 6 giugno 2011

Quando un rifiuto può costarti la vita

Molte volte ci capitano in ospedale situazioni stressanti, in cui il medico pone l’indicazione al cesareo e la donna rifiuta.
Spesso tale rifiuto e’ del tutto irrazionale e puo’ portare a gravissime conseguenze sia per la madre che per il nascituro.
Qualche mamma dice di non poter decidere senza consultare il marito... ma lo sposo non c’e’ e non ha un telefonino! Attendere per il suo arrivo l’indomani normalmente non e’ possibile perche’ il cesareo e’ generalmente un’emergenza.
Altre invece non vogliono l’operazione perche’ nella loro cultura una donna che non partorisce per via naturale e’ in qualche modo disprezzata e marchiata.
Altre ancora non accettano il cesareo perche’ desiderano molte gravidanze ravvicinate... e certo il cesareo limita questo piano, sia perche’ e’ pericoloso essere operata per piu’ di tre volte (anche se a me e’ capitato di fare dei quinti cesarei sulla stessa paziente), sia perche’ normalmente bisognerebbe aspettare due anni prima di una gravidanza successiva (anche se qui nessuno ci bada; e spessissimo, dopo cesareo, una donna inizia una nuova gravidanza in pochissimi mesi).
Ci sono poi quelle persone che, pur avendo avuto un cesareo per un’indicazione assoluta di natura anatomica (per esempio un bacino osseo troppo stretto), non ne vogliono sapere di avere un’altra operazione dopo la prima.
Sono in genere situazioni estreme, in cui la paziente si rifiuta sia di firmare il consenso all’intervento, sia di lasciare l’ospedale quando le spiego che, siccome non vuol seguire le indicazioni del medico, allora e’ inutile rimanere in una struttura gestita da un dottore di cui essa non si fida. Sfortunatamente sono le volte in cui in sala ci si finisce ugualmente... ma non con un cesareo elettivo durante il giorno, con tutto pronto, con lo staff al completo e con l’anestesista presente.
In sala si entra alle 3 di mattina; ed e’ in genere la stessa donna che prima rifiutava, a implorare per l’intervento, quando non ce la fa piu’ a sopportare i dolori lancinanti e quando e’ esausta dopo infinite ore di travaglio. Di notte naturalmente si e’ stanchi e meno lucidi; lo staff e’ ridotto ai minimi termini, e non abbiamo il conforto dell’anestesista.
Inoltre, a causa del grave ritardo, quello che avrebbe potuto essere un cesareo tranquillo e senza problemi, diventa sovente una procedura ad altissimo rischio sia anestesiologico che emorragico.
A volte si arriva poi a delle situazioni veramente estreme, come quella che ci e’ capitata ieri mattina (naturalmente di domenica, quando non ci sono ne’ Jesse, ne’ il dott Ogembo!).
Una donna con pregresso cesareo dovuto a disproporzione cefalo-pelvica (cioe’ ad un bacino piu’ stretto del diametro della testa del bambino), ha deciso non solo di rifiutare il cesareo, ma addirittura di partorire a casa, senza il supporto di un medico.
Ha travagliato a domicilio per un giorno ed una notte, poi, quando non ha piu’ avvertito il battito cardiaco fetale, e’ giunta in ospedale accompagnata dai parenti, in quanto non era piu’ in grado di reggersi in piedi.
Le sue condizioni erano critiche. La fronte era coperta da goccioloni di sudore freddo, la pressione arteriosa era quasi imprendibile.
Abbiamo cercato invano il battito cardiaco fetale: anche l’ecografia ci ha confermato cio’ che era gia’ chiaro a tutti. Il feto era morto.
Avrei voluto quindi attendere l’espulsione naturale di quel cadaverino, ma le infermiere insistevano che bisognava intervenire chirurgicamente perche’ le condizioni critiche della malata indicavano con quasi certezza la presenza di una rottura d’utero.
Siamo quindi entrati in sala con procedura d’urgenza.
Si e’ attivato anche il laboratorio analisi, che in 20 minuti ci ha fornito due sacche di sangue pronto per essere trasfuso.
Lo staff era ai minimi termini, ma ci sostenevano l’adrenalina ed il desiderio di salvare almeno la mamma, se non il bambino.
L’intervento e’ stato difficile a causa delle condizioni di lavoro, ma siamo riusciti ad aver ragione di una situazione molto difficoltosa. C’erano litri di sangue in peritoneo, ed abbiamo notato una enorme breccia in corrispondenza della pregressa cicatrice sull’utero.
Quello che ha salvato la vita di questa madre imprudente e’ stato l’omento, una struttura anatomica molto versatile, che ha funzioni sia di spazzino che di poliziotto all’interno della nostra pancia. Appena c’e’ un problema, l’omento si mobilita... ed anche in questo caso e’ riuscito ad andare a contenere l’emorragia, formando come una tenda davanti alla rima di frattura dell’utero.
Purtroppo non siamo riusciti a salvare l’organo, perche’ la lacerazione era davvero troppo estesa ed estremamente flaccida e necrotica. Abbiamo quindi deciso per una isterectomia d’urgenza a cui la donna ha acconsentito (era infatti in anestesia spinale), dal momento che aveva gia’ quattro figli.
Abbiamo quindi terminato l’operazione, e, con l’aiuto di Dio, non abbiamo registrato seri problemi. Con le due sacche di sangue abbiamo mantenuto la donna in condizioni emodinamiche soddisfacenti fino alla fine della procedura.
Ma in me le domande si rincorrevano feroci: perche’ questa madre ha atteso nove mesi la sua creatura, e poi ha preso una decisione tremendamente sbagliata, che ha ucciso il bambino tanto atteso, ed l’ha quasi portata al sucidio?
Mi ricordo di aver parlato piu’ volte con questa donna durante la gravidanza, dicendole che non avrebbe assolutamente dovuto tentare un parto naturale, a causa della situazione ossea del suo bacino. Le avevo anche raccomandato di non attendere il travaglio, ma di farsi operare due settimane prima della data eventuale del parto, in quanto un cesareo elettivo e’ gravato da molte meno complicanze rispetto ad uno in emergenza.
Ma le mia parole sono cadute nel vuoto.
Ora questa donna per fortuna e’ ancora viva, ma non ha piu’ l’utero... e soprattutto non ha quel bambino che ha atteso con pazienza per nove mesi.
Perche’ lo ha fatto?
Non lo so ed onestamente non riusciro’ mai a capire.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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