martedì 21 giugno 2011

Quando vince la morte

Ogni volta che si viene sconfitti dalla morte, si prende coscienza della propria inadeguatezza e dei propri limiti. Spesso capita che la gente ti guardi come un semi-dio ed attenda da te la risposta a tutti i suoi problemi. Questa esperienza quotidiana, lungi dal riempire di superbia, fa invece una paura da crepare, visto che io so benissimo chi sono, conosco i miei limiti anche professionali, e so che qui non ho primari a cui chiedere consiglio o dove fuggire quando la responsabilità diventa troppo pesante.
Oggi ho ripreso coscienza del killer più terribile che ancora falcidia l’Africa: la malaria.
Ho ricoverato in mattinata una bellissima ragazzina di 17 anni, inviataci da un dispensario rurale: dovevo fare una ecografia e capire se la sua era una gravidanza gemellare o una singola, con bambino troppo grande per un parto naturale. Ricordo di aver fatto il test con calma, facendo vedere alla mammina gli occhi, le labbra e i movimenti di deglutizione del suo bambino ancora “ non nato”. Mi ha anche chiesto se potevo dirle di che sesso era: con un colpo di fortuna ho visto che si trattava di un maschietto e ne abbiamo parlato. Il cuore fetale batteva benissimo, ed io ho detto che avremmo dovuto fare un cesareo per evitare complicazioni.
Davanti a me Rodah non ha battuto ciglio, e sembrava tutto organizzato: forse era timida di fronte ad uno “stregone bianco”… giunta però dall’ostetrica ha cominciato a dire che non voleva l’operazione e che avrebbe desiderato provare con il travaglio almeno fino all’indomani, quando sua mamma sarebbe venuta e le avrebbe dato un consiglio. Io ho fatto di tutto per convincerla, ma questo ci ha fatto perdere almeno tre ore. Quando finalmente, dopo minaccia di portarla a partorire a casa, lei ha deciso di accettare l’intervento, quasi istantaneamente ha iniziato a tremare con un brivido scuotente e continuo. Io pensavo che si trattasse di panico, ma poco dopo abbiamo misurato una temperature di 41°C.
La paziente dopo pochi minuti già delirava e vomitava bile, mentre il battito cardiaco fetale peggiorava molto rapidamente. L’abbiamo portata di peso in sala operatoria ed abbiamo fatto il cesareo più veloce della mia vita…credo di averci messo un minuto dal taglio della cute alla estrazione del bambino. I tessuti materni erano bollenti a causa della febbre alta e con mio grande dolore ho invece sentito che il bimbo era invece freddo e bianco come un cencio. Jesse ha tentato la rianimazione mentre io e Makena continuavamo l’intervento che doveva durare il meno possibile visto che la paziente aveva seri problemi respiratori e pressione bassa.
Ad un certo punto però le parole dell’anestesista ci hanno come “assassinato”: “né battito cardiaco né attività respiratoria”.
Avrei voluto urlare, ma dovevo andare avanti a cucire, ed anche in fretta perchè Jesse continuamente mi ricordava i parametri sempre meno incoraggianti della malata. Ho detto a Make: “ Coraggio! Se no, perdiamo anche la madre”… Alla fine ce la abbiamo fatta, lottando non poco anche contro la forte emorragia.
Uscendo dalla sala operatoria non ho potuto riflettere, perchè i pazienti esterni erano in agguato a ricordarmi che ero in ritardo, che loro venivano da molto lontano e che stavano per perdere l’ultimo “matatu”.
Ora è tardi: sono tornato a vedere Rodah che è in un lago di sudore e sanguina ancora un po’. E’ confusa e non mi riconosce a causa della malaria cerebrale: non sa ancora che quel figlio maschio che abbiamo contemplato a lungo attraverso il monitor poche ore fa, adesso è già in obitorio. Non so quando potremo dirglielo: sarà un altro duro compito che spetta sempre e solo a me non appena la malata sarà completamente cosciente.
Sono un po’ a terra e mi sembra di non aver fatto nulla di buono. Offro a Dio questa mia sensazione fallimentare e lascio a Lui la decisione se oggi sia stata una giornata positiva o negativa.
Lo so che il nostro compito non è quello di spiegare le ragioni del male, ma piuttosto quello di impegnarci corpo e anima per alleviare un po’ di sofferenza. Lo so che non siamo chiamati a fare della filosofia sulle spalle di chi non sta bene, ma piuttosto a tirarci su le maniche e a condividere la nostra vita con loro. Questo è esattamente quello che cercherò di fare anche domani.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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