sabato 30 luglio 2011

Karimi

... Mi dirigo verso una casupola di fango con un tetto in lamiere arrugginite. La capanna è così male in arnese che mi chiedo come possa essere abitata. Scendo la scarpata con qualche difficoltà, e mi avvicino al cortiletto.
“Habari yako, Padre”, mi dice una voce dall’interno, prima ancora che io possa vedere la persona.
“Nzuri sana” – rispondo – senza scorgere la mia interlocutrice.
“Volevo solo portarti i miei saluti e anche un qualche aiuto da Chaaria. So che hai dei problemi finanziari, mentre noi abbiamo delle persone che vorrebbero aiutarti. Non so se riusciremo a costruirti una casa nuova, ma per ora potremmo pensare a pagare la scuola per tuo figlio”.
“ Non ho parole per ringraziarvi. Io sono vedova e mio figlio ha bisogno veramente di tutto.  Lavoro la terra, ma non è facile tirare avanti”.
“Come fai a dormire in questa catapecchia, su un pendio così estremo?”
“No che non ho paura. Io in questa casa ci sono nata. Poi ci sono gli alberi, ed i nostri antenati ci hanno insegnato che finchè non li tagliamo, loro ci proteggeranno con le loro radici. Essere in un posto così difficile da raggiungere ci protegge anche dai malviventi”.
“Come ti chiami?”
“Karimi”.
“Che bel nome. Ti si addice proprio. Infatti vuol dire contadina, e vedo che stai cercando di ricavare quanto più possibile da questa terra non facile”.
Vicino a Karimi c’è un bambino con abiti logori, senza scarpe e con lo sguardo maturo ed un po’ serio. Non ha altri giocattoli che un cerchione di bicicletta, tutto arrugginito. Lo fa girare e lo rincorre per il cortiletto. “E lui come si chiama?”. “Lui è il mio primogenito, si chiama  Mutethia – mi dice – ed è molto volenteroso. Mi aiuta tanto, soprattutto da quando è morto suo papà”.
“Povero piccolo – penso tra me e me - in questa casa senza pavimento, senza acqua corrente e senza elettricità deve essere proprio dura alla sua età.
“Dio ti benedica, Karimi. Ti manderò i soldi promessi ed un bel po’ di vestiario. Vedrai che anche Mutethia sarà elegantissimo”.
Mentre risalgo la ripida pendice, io ripenso alle nostre case sontuose in Italia, agli infiniti giocattoli per i nostri bambini, allo spreco che a volte caratterizza la nostra società. Poi mi vedo davanti a Karimi e a suo figlio. Immagino come deve essere per lei la notte in quella capanna illuminata solo dalla fioca luce di una lampada a petrolio. Karimi mi sembra una donna fortissima, coriacea, e la ammiro dal profondo dei miei visceri.
Ripenso anche alla mia bella camera e a tutte le mie comodità. Poi rimugino tra me e me: “Noi facciamo il voto di povertà, ma sono altri a viverlo in maniera drammatica. Quando vedo situazioni come questa mi vergogno di essere religioso, e di vivere in condizioni di vita così tanti superiori a quelle di coloro che stanno male davvero.
Karimi è veramente beata agli occhi di Dio, perchè, nella sua serenità, vive la povertà evangelica in un modo che mi lascia a bocca aperta.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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