Una sera eravamo nel reparto uomini, a vedere l’ultimo paziente arrivato dopo che avevamo finito il giro visite. Mentre lo stavamo visitando, siamo stati interrotti dall’arrivo di una delle sorelle, una delle più giovani, che entrata in reparto con il sorriso sul volto, ha chiesto silenzio, ha detto qualcosa, dopodiché ha cominciato una preghiera a voce alta. Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Tutti i pazienti, che stanno stipati in un’unica camerata, sono ammutoliti e nel silenzio hanno cominciato ad unirsi alla preghiera. Non capivo cosa dicevano, ma capivo una parola ricorrente: “baba” (padre, suppongo...), per cui probabilmente stavano dicendo il padre nostro.
Non so quanti di loro fossero cristiani e quanti praticanti, ma tutti si unirono pregando a voce alta (quelli che erano in grado di farlo).
Una preghiera semplice, un gesto semplice. Avvertivo una partecipazione alla preghiera come da noi è difficile trovare; gente povera, malati, molti in condizioni gravi e alcuni con poche speranze di sopravvivere. Situazioni in cui una preghiera è ancor più importante delle medicine. Ho avvertito chiaramente che in quel preciso momento “baba”, il nostro padre, era una presenza quasi tangibile.
Andandosene, la sorella ci ha perfino chiesto scusa per avere interrotto la visita medica.
Grazie sister, con grande semplicità e con il sorriso hai portato a tutti i malati la presenza di un Padre di speranza e di consolazione. E mi hai fatto capire quanto questo sia importante e bello. Così spesso ce ne dimentichiamo, tra le mille cose da fare.
Federica Dassoni
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