domenica 10 luglio 2011

Una sera, a Chaaria

Una sera eravamo nel reparto uomini, a vedere l’ultimo paziente arrivato dopo che avevamo finito il giro visite. Mentre lo stavamo visitando, siamo stati interrotti dall’arrivo di una delle sorelle, una delle più giovani, che entrata in reparto con il sorriso sul volto, ha chiesto silenzio, ha detto qualcosa, dopodiché ha cominciato una preghiera a voce alta. Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Tutti i pazienti, che stanno stipati in un’unica camerata, sono ammutoliti e nel silenzio hanno cominciato ad unirsi alla preghiera. Non capivo cosa dicevano, ma capivo una parola ricorrente: “baba” (padre, suppongo...), per cui probabilmente stavano dicendo il padre nostro. 
Non so quanti di loro fossero cristiani e quanti praticanti, ma tutti si unirono pregando a voce alta (quelli che erano in grado di farlo). 
Una preghiera semplice, un gesto semplice. Avvertivo una partecipazione alla preghiera come da noi è difficile trovare; gente povera, malati, molti in condizioni gravi e alcuni con poche speranze di sopravvivere. Situazioni in cui una preghiera è ancor più importante delle medicine. Ho avvertito chiaramente che in quel preciso momento “baba”, il nostro padre, era una presenza quasi tangibile.
Andandosene, la sorella ci ha perfino chiesto scusa per avere interrotto la visita medica.
Grazie sister, con grande semplicità e con il sorriso hai portato a tutti i malati la presenza di un Padre di speranza e di consolazione. E mi hai fatto capire quanto questo sia importante e bello. Così spesso ce ne dimentichiamo, tra le mille cose da fare.
Federica Dassoni

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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