venerdì 20 gennaio 2012

I drammi dell'ignoranza



Abbiamo appena finito l’intervento. E’ notte fonda e siamo a pezzi, anche perche’ stamattina le emergenze erano iniziate alle 3.
In tutti noi permane un senso di grande mestizia e depressione, e ci chiediamo come mai debbano ancora succedere cose del genere al giorno d’oggi.
Era iniziato tutto verso le ore 20, quando Miriam e’ entrata nel mio studio durante la mia ultima ecografia: “Mi dispiace, ma non posso lasciarti andare a riposare dopo questo malato. E’ infatti arrivato un prolasso del cordone ombelicale”.
“Oh Santo Cielo, ma il cordone pulsa?”, le chiedo concitato.
“Veramente non ne sono sicura... e’ meglio che vieni a controllare!”
Non mi arrabbio con Miriam, che e’ appena uscita dalla scuola infermieri, perche’ e’ piu’ che normale non abbia tutta quell’esperienza che ti aspetteresti per la gestione di una sala parto oberata come la nostra.
Seguo la mia infermiera e mi trovo davanti una donna molto povera, a giudicare dalle condizioni degli abiti. E’ sporca ed impolverata. La sua statura non supera il metro e trenta, e noto sul suo addome una cicatrice da pregresso cesareo.
Non sento alcuna pulsazione quando afferro il cordone tra pollice ed indice, e decido per una ecografia d’urgenza in sala parto con lo strumento portatile.
La donna suda profusamente, ed e’ in preda a dolori addominali molto sospetti... sono infatti troppo violenti e troppo continui per essere imputabili semplicemente a contrazioni.
L’eco parla chiaro come sempre: il feto e’ morto, ma l’utero e’ rotto. Bisogna quindi aprirla comunque, sperando poi di salvarle l’organo.
Seguono momenti convulsi, in cui io mi dedico alla misurazione dell’emoglobina ed alla determinazione del gruppo e delle prove crociate. Ann invece corre a chiamare Monica e Wilson. Il watchmen fa una scappata fino alla casa di Jesse, e Fr Giancarlo parte “a tutta birra” con l’ambulanza alla volta del domicilio di Kanyua.
Riusciamo ad iniziare molto rapidamente, in quanto tutti erano reperibili al momento della chiamata. Aprendo l’addome, immediatamente ci troviamo immersi un una specie di deja’ vue, molto simile a quanto gia’ successo pochi giorni fa.
Nuovamente ci ritroviamo imbrattati di sangue e coaguli, subito dopo l’apertura del peritoneo... almeno stavolta sappiamo che la donna e’ sieronegativa!
Lavoriamo in una specia di pozzanghera, ed il sangue che si rapprende sulle nostre gambe, ci da’ una spiacevole sensazione di freddo.
Estraiamo il feto morto... ma qui la situazione si fa angosciante.
Ci sono tantissime aderenze che bloccano l’utero al fondo della pelvi... in quella pancia c’e’ sangue dovunque, e non riusciamo a capire da dove provenga; pare un idrante, e per un po’ non possiamo fare altro che aspirare, mentre la nostra ansia continua a salire.
Finalmente riusciamo ad intravvedere qualcosa: la breccia sull’utero e’ enorme, ed ha squarciato l’organo in due.
Prima di comprendere se si puo’ tentare una riparazione o meno, bisogna comunque esporre il campo operatorio. Tagliamo quindi le aderenze e leghiamo le nuove fonti di emorragia.
Le condizioni della paziente rimangono instabili e ci troviamo nella necessita’ di una trasfusione veloce durante l’intervento.
Quando finalmente riusciamo e liberare l’utero, ci rendiamo conto che e’ stato ridotto ad una massa carnosa informe. Ogni volte che ci infiliamo l’ago per una sutura, creiamo una lacerazione peggiore ed un nuovo zampillo emorragico.
“Devo decidere subito. Non c’e’ tempo di tergiversare. Jesse, quanti figlia ha la paziente?”, quasi urlo nella mia angoscia.
“Ne ha uno solo!”
Penso tra me che il figlio unico e’ un dramma in questa cultura, ma non ho alternative. Anche un ovaio e’ praticamente esploso al momento della rottura uterina:
“Cambiamo il piano operatorio. Dobbiamo fare l’isterectomia, se vogliamo tentare di salvarle almeno la vita”.
L’operazione continua per altre due ore piene di tensione e di imprevisti; ma alla fine la donna e’ sveglia e stabile dal punto di vista emodinamico.
Sicuramente e’ viva, e questo e’ gia’ un grande risultato... ma che razza di esistenza avra’ davanti a se’, ora che e’ diventata chirurgicamente sterile?
Uscendo dal reparto operatorio mi trovo davanti l’anziana madre dell’operata, e, quasi senza rendermene conto, scarico su di lei un po’ della tensione accumulata durante l’operazione: “ma non ve lo aveva detto nessuno, dopo il primo cesareo, che la sua costituzione ossea non avrebbe consentito un parto naturale? Perche’ ha provato a partorire a casa?”
La vecchia signora e’ timidissima, come tutti coloro che si rivolgono ad un medico bianco. Il loro senso di timore e riverenza e’ tale, che neppure ti guardano negli occhi: “non lo sapevamo, dottore... o magari non avevamo capito!”
“Ma perche’ lasciarla travagliare per piu’ di venti ore a domicilio! Non vi rendevate conto che le cose andavano male?”
“Si’, dottore, lo vedevamo che qualcosa era storto, ma lei non riusciva a camminare... e noi non avevamo i soldi per pagare un mezzo pubblico!”
“Ma come e’ possibile? La gravidanza dura nove mesi, in cui uno puo’ mettere da parte qualcosa...”.
Ma non riesco a finire la frase... le mie parole mi rimbombano nel cervello immediatamente, e mi paiono inopportune e giudicanti.
Ho pensato subito con vergogna: ‘io non posso sapere quanto sia difficile la vita di qualcuno dei miei pazienti’.
Ho abbassato lo sguardo, che era stato puntato su di lei; mi sono sentito stupido, e le ho semplicemente sussurrato:
“Ti chiedo scusa per quanto ho detto... lo so che non posso capire”.
In quel momento mi si avvicina Miriam, la quale ha sentito tutto, e, senza essere interrogata, mi da’ la sua versione delle cose: “Molti non si rendono conto del pericolo, e vogliono comunque partorire a casa, per risparmiare quattro soldi”.
Io la fisso sconsolato, e faccio un segno di assenso con il capo.
Vorrei dire qualcosa, ma preferisco tenermelo dentro: ‘avra’ pur risparmiato qualche scellino, ma se fosse venuta anche solo ieri, oggi avrebbe ancora l’utero ed un figlio da coccolare. Il calcolo fatto per un ipotetico risparmio, si e’ trasformato in una profondissima perdita che la segnera’ per sempre... quante volte nella vita si fanno errori da cui non e’ poi piu’ possibile recuperare’.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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