domenica 1 aprile 2012

La domenica di Chaaria

Sono le 23 e mi avvio verso camera mia trascinando i piedi. La luna è piena e ci si vede benissimo. Gli alberi di papaia vicino all’ospedale fanno addirittura ombra. Mentre cammino guardo in alto e mi viene un tonfo al cuore nel contemplare la selvaggia bellezza delle nuvole rischiarate dalla soffusa luminosità lunare. 
Che bello il cielo nella stagione delle piogge! Crea nel mio cuore un’atmosfera biblica e mi aiuta a pensare a Dio. Voglio passare in cappella e salutare il Signore anche se non avrò la forza di aprire un libro o di recitare un salmo. 
Mi siedo al buio per qualche minuto, semplicemente guardando il tabernacolo che intravedo nella luce rossa del cero. Offro al Signore la mia domenica. Avrebbe dovuto essere un giorno di riposo, un giorno da dedicare alle “cose di Dio”… e invece è stato un susseguirsi di corse e di problemi difficile da risolvere. Fortunatamente sono riuscito a partecipare alla Messa con i malati nella lavanderia dell’ospedale. 
E’ sempre bella questa Eucaristia, celebrata nel cuore della nostra casa della sofferenza e della speranza, in mezzo a tante persone che soffrono e che ripongono in noi tanta fiducia. Quando sono seduto sulle panche e guardo tutti quei volti segnati dalla malattia, quelle mamme che allattano bambini più o meno malconci, quelle puerpere così orgogliose del dono di vita appena ricevuto da Dio, allora sento che la mia Messa è vera, è un reale incontro con quel Dio che mi ha donato forza e luce per aiutare tante persone nel suo nome. 
L’Eucaristia con i malati è come il completamento della settimana, in cui ringrazio Dio per tutte le volte in cui mi ha aiutato a non fare pasticci, in cui mi ha dato luce per dare la terapia corretta, in cui mi ha dato la forza per alzarmi anche di notte per rispondere ad una chiamata, in cui ha guidato la mia mano in sala operatoria anche quando a metà intervento avrei voluto svenire perché non ero più in grado di continuare. Spesso poi, come oggi per esempio, la Messa prosegue anche dopo, quando Dio mi viene incontro e mi chiede di continuare a riconoscerlo in coloro che soffrono e che hanno bisogno del mio aiuto, anche se è domenica, anche se avrei voluto riposare e prendermi qualche momento di svago. Oggi infatti il Signore si è camuffato sotto le spoglie di Margaret, una giovane donna handicappata, probabilmente abusata da qualche disgraziato, ed ora ricoverata da noi per parto. 
E’ frequente vedere ragazze come lei nel nostro dipartimento di maternità: magari vengono lasciate sole a casa perché i genitori vanno nei campi a lavorare; altre volte scappano e vagolano per le strade dove vengono poi circuite da giovani senza scrupoli. Margaret era stata accompagnata dalla mamma; era tutta gonfia, soprattutto alle gambe, respirava a fatica e di tanto in tanto aveva una crisi epilettica. L’abbiamo visitata e ci siamo accorti che purtroppo la sua situazione era critica:si trattava di gestosi gravidica, una condizione molto pericolosa sia per la mamma che per il nascituro, in cui la pressione diventa altissima e la paziente entra in uno stato di male epilettico con crisi così frequenti da diventare addirittura una causa di coma. 
L’unico modo di salvare la vita di entrambi è il taglio cesareo urgente. Ci attiviamo immediatamente. Il tempo però stringe. Rischiamo di perderli tutti e due e quindi bisogna agire con le forze che abbiamo. Entro in sala con Makena, la mia assistente, e con Susan che per oggi si trasformerà in aiuto anestesista. Tentiamo di fare “la spinale”, ma l’impresa risulta vana: Margaret è davvero handicappata. Non sa che rischi sta correndo e non collabora affatto: si dimena sul letto e non mi permette di praticarle il farmaco. Questo complica ulteriormente la situazione. Anche in queste condizioni di carenza di personale dobbiamo tentare una anestesia generale perché non ci sono alternative. Il tempo stringe ed una complicazione irreversibile è alle porte. 
Come sempre però la Provvidenza è superimpegnata a Chaaria per colmare le nostre lacune e per guidarci laddove potremmo creare dei grossi pasticci. Sento la sua mano su di me, come guida, sostegno e protezione. Infatti “la generale” che seguo io stesso dando indicazioni a Susan, procede senza grossi problemi; il bambino nasce con un forte grido e con un colore roseo alquanto rassicurante, e l’operazione si conclude in tempi brevi e senza particolari problemi. Che bello! Sono vivi entrambi! La paziente, poi, ci dà ancora un po’ d’ansia durante le ore seguenti perché ha convulsioni continue ma, fortunatamente, anche questo trova una sistemazione farmacologica ed al pomeriggio è sveglia e stabile, con pressione accettabile e priva di crisi. E’ una bella sensazione quella che proviamo, soprattutto quando portiamo il bambino alla mamma di Margaret, la quale era stata fuori ad aspettare e pregare. Lei continua a ripetere: “Mungu awabariki wote” (“Il Signore vi benedica tutti”), ed io penso che spesso non è necessario parlare di Dio alla gente, perché le nostre azioni diventano in se stesse annuncio. Lavorare per la vita a tempo pieno è certamente una via moderna di evangelizzare, e questo pensiero placa un po’ i miei sottili sensi di colpa che nascono spesso dal fatto di trovare così poco tempo per la preghiera anche di domenica. 
Ci sediamo un attimo in “room 17” e ci prepariamo un caffè. Oggi forse riesco a mangiare pranzo con la comunità. Dopo il pasto con i Fratelli avevo programmato una “siesta” di almeno un’oretta, ma un’altra volta Dio decide diversamente e viene a bussare alla porta della nostra disponibilità nella persona di Luciline che mi dice di passare subito in sala parto. Mi dirigo quindi nuovamente in ospedale, cercando di vincere la sonnolenza postprandiale. Appena giuntovi guardo Makena e Susan che già erano state preavvisate prima di me, e dico loro: “si vede che oggi il nuovo team di anestesisti deve fare un adeguato rodaggio”. Ridiamo per non piangere, in quanto sotto sotto abbiamo molta paura di quello che ci aspetta. Entriamo tutti e tre in maternità e con nostra sorpresa vediamo una donna ansimante, con le gambe molto edematose; è seduta sulla barella ed è madida di sudore freddo. Si dimena qua e là e rischia di cadere. Chiedo a Luciline se si tratta di un’altra handicappata mentale; lei risponde di no. I parenti dicono che è stata bene fino alla sera precedente, e poi ha sviluppato difficoltà respiratorie durante la notte. E’ anche in travaglio ed il battito cardiaco fetale sta andando molto male. Questa è un’altra situazione limite in cui avresti veramente voglia di scappare per lasciare ad altri la soluzione del problema. Ma non si può. Qui non ci sono primari da contattare o specialisti da chiamare: che facciamo? Luciline dice che bisogna praticare il cesareo subito per salvare la vita del bambino. Io sono molto dubbioso perché la mamma non può neanche mettersi sdraiata in quanto in quella posizione va in deficit di ossigeno. Misuro la pressione che è praticamente imprendibile. Cerchiamo di fare un ECG con la mamma semiseduta e la diagnosi è severa: scompenso cardiaco con inizio di edema polmonare. Sono paralizzato per un attimo. Non so che pesci pigliare. Chi ha la precedenza in questo caso? Chi devo tentare di salvare? La mamma o il bambino? “Signore aiutami a decidere in fretta perché altrimenti li perdo tutti e due!” Dico allora a Makena di portare in sala parto l’ecografo: purtroppo il battito cardiaco fetale si è già fermato. Tiro un respiro di sollievo, che potrebbe anche sembrare cinico, ma in quel momento per me è un segnale della Provvidenza che mi dice di non andare in sala operatoria (avrei ucciso entrambi con l’anestesia!) e di fare tutto quello che posso per salvare la vita di quella povera cardiopatica che non sapeva neppure di avere problemi finché il travaglio ha fatto tracollare quel cuore che da anni soffriva e claudicava. Instauriamo tutte le terapie di rianimazione cardiologia in nostro possesso. Con la mail cerco di mettermi in contatto con amici italiani che generosamente mi rispondono, ma senza grosso aiuto perché il più delle volte mi chiedono di fare esami che non ho, e di praticare farmaci qui da noi introvabili. La mamma intanto non migliora. E’ molto agitata; si strappa via la flebo ed il catetere. Vuole alzarsi e dice frasi inconsulte. Vorremmo che un parente ci aiutasse, perlomeno stando seduto al capezzale e tenendola ferma, ma tutti sono scappati, forse terrorizzati dalle sue condizioni cliniche. Questa agitazione non ci dice niente di buono perché significa che il suo cervello riceve sempre meno ossigeno. Makena mi chiede: “cosa facciamo per il bambino morto in grembo”. Le rispondo quasi come una macchinetta: “il bambino è l’ultimo dei nostri problemi. Può restare dove è anche per altre 24 ore. Per ora cerchiamo di tirare fuori la paziente che è ancora in grave pericolo”. La lotta continua per molte ore, ma purtroppo la paziente non urina. I suoi reni sono andati. La pressione scende continuamente nonostante le medicine. I polmoni si riempiono gradualmente di acqua. La mamma ci guarda, annaspando sempre di più alla ricerca di aria. Poi di colpo si mette ad urlare: “ Mio Dio, sto morendo!” Questo grido non cessa più. Lo ripete a ritmo incalzante per più di un’ora finché il cuore cede completamente. Solo ora il suo volto si rilassa e sembra quasi sorridere. Li abbiamo persi tutti e due. A pochi letti di distanza c’è Margaret che ora è addormentata, mentre il suo figlioletto è in incubatrice. Makena mi dice: “adesso dovremo fare anche l’autopsia”, ed io le rispondo: “a che scopo? È evidente che questa madre è morta per uno scompenso cardiaco di cui nessuno era al corrente”. Ma lei insiste: “vedrai che i parenti te la chiederanno, almeno per estrarre il feto morto, perché nella nostra cultura una mamma non può mai andare in Paradiso con un bimbo in grembo. I due devono essere separati!”. Ed io rispondo: “Ah, ora mi ricordo che era già successo! Vediamo cosa dicono i familiari domani. Per ora pensiamo a tutti gli altri pazienti a cui non abbiamo dato attenzione oggi a causa di queste due emergenze”. 
Ora è tardi. Ho finito anche il giro dei pazienti dopo cena. Tutto sembra tranquillo per la notte e c’è speranza che non ci siano chiamate. In cappella al buio mi viene da pensare a quanto sia importante la fede per continuare a lottare nel campo della sofferenza, al di là di tutte le sconfitte e della fatica a volte veramente grande; una fatica che spesso non è solo fisica, ma più profonda: è un senso di depressione che ti assale quando vedi la disonestà della gente che non apprezza il tuo sacrificio quotidiano, ma pretende sempre di più e spesso ti tradisce. 
Penso però a tutti i pazienti che ho incontrato oggi, “giorno del Signore”, e con la mente ritorno alle parole del Cottolengo: “Ricordatevi che è una bella cosa sacrificare la salute ed anche la vita al servizio dei poveri e dei sofferenti”. “Dovete servire i malati impegnandovi senza misura, fino al sacrificio della vita”. Questi pensieri mi ridanno pace e mi fanno pensare che anche oggi sono stato in comunione con Dio e l’ho incontrato da vicino. Sto ciondolando e mi rendo conto che è ora di andare a letto. Guardo il tabernacolo e concludo la mia preghiera dicendo semplicemente: “ buona notte, Gesù”. 

Fr Beppe Gaido 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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