giovedì 20 settembre 2012

Le nostre sconfitte


Nuova chiamata notturna!
Il cicalino suona e mi dicono di correre, ma non chiamare altri perche’ non e’ un cesareo.
Do’ uno sguardo alla finestra e vedo l’orizzonte rosso fuoco: ne gioisco perche’ devono essere quasi le 6, l’ora in cui comunque mi sarei alzato per la preghiera.
Mi vesto in fretta e furia senza neppure lavarmi la faccia, e mi precipito in ospedale. D’istinto mi dirigo verso la sala parto, perche’ immagino che comunque la maternita’ sia nuovamente il punto nevralgico... ed infatti vedo Eunice tutta sudata che si affatica attorno alla testa di un neonato che non ne vuol sapere di “uscire”.
Metto i guanti e sostituisco l’infermiera in questa manovra difficile e colma di tensione: il bimbo ha la spalla superiore “inchiodata” dietro il pube della mamma.
Sono gia’ passati minuti preziosi.
Mi tremano le gambe e sudo come un cavallo, non perche’ faccia caldo, ma per la tensione estrema. Goccioloni mi calano negli occhi e me li fanno bruciare rabbiosamente, ma ho i guanti insanguinati e non mi posso asciugare... altri rivoli di sudorazione piovono da entrambi i miei gomiti.
Le gambe mi tremano e faccio fatica a stare in piedi.
Passano attimi lunghissimi...non so quanto tempo sia trascorso in realta’... a me e’ parsa un’eternita’!
Alla fine il feto viene partorito, ma e’ flaccido e cianotico. Non da’ segni di vita.
Le gambe continuano a tremarmi  e le ginocchia sbattono l’una contro l’altra, mentre mi dirigo verso il lettino termico: tentiamo la rianimazione cardio-polnonare, ma non otteniamo nulla. La morte e’ stata piu’ forte e piu’ rapida di noi!
Mi siedo un attimo e cerco di calmarmi, prima di dire qualcosa a quella mamma. Eunice invece si occupa del secondamento e mi rassicura che che pensera’ lei a darle la notizia.
Un attimo dopo vedo pero’ la figura di Lawrence sulla porta della sala parto; mi dice di andare in ambulatorio per la rianimazione di una bambina: respirava appena ed i polmoni erano pieni di rantoli. Il suo torace pareva una pentola in ebollizione. La febbre era altissima e la bimba del tutto incosciente. Non sembrava anemica e la glicemia era normale.
In corridoio la mamma piangeva disperatamente, come se gia’ sapesse come sarebbe andata a finire!
Noi facciamo tutto quello che possiamo, ma anche questa creatura ci spira tra le mani... la seconda in mezz’ora!
Venivano da Manthi, villaggio poverissimo a 12 chilometri da Chaaria: la piccola era stata dimessa da poco piu’ di due settimane, dopo una grave malaria cerebrale associata a meningite. In tale occasione avevamo anche fatto il test HIV che era risultato positivo.
Non sappiamo se e’ stata una ricaduta malarica, o una meningite non completamente guarita, oppure semplicemente l’immunosoppressione a portarla al Creatore.
Fatto sta che anche lei e’ andata in Paradiso, ed oggi comincio la giornata con l’umore sotto i tacchi.
Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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