Ieri è morto Bernard, un giovane di circa 30 anni, affetto da una
stranissima forma di paralisi progressiva. I problemi erano iniziati alcuni
anni prima, con delle sensazioni di stanchezza alle gambe. Poi la situazione
era degenerata sempre di più sino a relegarlo a letto in quanto incapace di
muovere sia le gambe che le braccia. Era giunto a Chaaria quasi tre mesi fa. Ci
eravamo impegnati tantissimo a cercare una causa per quella situazione. Grazie
ad Elizabeth eravamo in contatto con la Facoltà di Medicina Tropicale di
Anversa: i Professori ci hanno sempre risposto gentilmente e ci hanno portato a
una diagnosi probabile: tubercolosi del midollo spinale con paralisi da
compressione. La diagnosi ci ha dato nuova speranza. Soprattutto Elizabeth -
colei che lo ha seguito di più - era raggiante perché almeno per la TBC
disponiamo dei farmaci. Abbiamo dato al giovane la terapia richiesta e
l’abbiamo avviato alla fisioterapia. Pian piano i miglioramenti cominciavano a
vedersi, e Bernard aveva ripreso a camminare con il girello, anche se con
fatica notevole. Lo si vedeva inerpicarsi sulla salita dello scivolo che porta
alla palestra, sempre con il sorriso sulla bocca: diceva con soddisfazione che
ora poteva stare in piedi nuovamente.
Poi, inaspettatamente, il crollo! L’altro ieri Bernard è caduto e ha
cominciato a lamentarsi di forti dolori su tutto il corpo. Lo abbiamo visitato
ed abbiamo escluso la possibilità di fratture. Lo abbiamo rassicurato, gli
abbiamo dato analgesici, ma lui è diventato irrequieto. Ripeteva la storia
della caduta infinite volte, diceva di volere altre iniezioni.
La situazione in room 28 (un camerone che ospita più di 30 pazienti) era
diventata molto tesa. Non si riusciva a visitare gli altri perché Bernard
urlava; gli altri malati erano nervosi a causa delle grida. La decisione di
Elizabeth, da me completamente avallata, è stata quella di dargli un po’ di
Valium per rilassarlo un po’: eravamo convinti che il problema fosse d’ordine
psicologico, e che la caduta non avesse nulla a che fare con il suo
comportamento.
Non più di due ore dopo vengo chiamato urgentemente al capezzale di
Bernard e lo trovo in fin di vita, completamente in coma. Aveva “gasping”:
dava, cioè, gli ultimi respiri; vomitava abbondantemente sangue dalla bocca. A
nulla sono valse le corse, sia mie che di Elizabeth o di Kithinji. Lui ci ha
lasciato dopo mezz’ora, facendo precipitare tutti noi in uno stato di profonda
frustrazione.
Quello che ci ha lasciati tutti di stucco è il fatto che Bernard
continuasse comunque a chiamare e a urlare, anche se a nostro avviso la caduta
non poteva aver causato tutto quel dolore. La mia profonda convinzione è che i
malati sentano benissimo quando la vita sfugge loro di mano. Chiamando
continuamente forse voleva dirci che la vita lo stava lasciando, ma noi, sempre
di corsa non abbiamo saputo dargli retta. Noi siamo tecnicisti e “molecolari” e
quindi scientificamente sapevamo che non poteva essere vero che lui avesse così
male… ed ancora una volta ci è sfuggito l’aspetto umano di quella richiesta di
aiuto. A questo riguardo mi torna in mente il caso di Susan, una malata grave
che una sera mi ha preso per il vestito e mi ha trascinato contro il proprio
petto continuando a ripetere: “Doctor, I am dying”. Istintivamente terrorizzato
da quella mossa ho provato a divincolarmi ma lei è spirata con i pugni chiusi
attorno al mio camice. Per me è stato uno shock notevole trovarmi a distanza
ravvicinata da quel corpo, non perché abbia paura dei morti, ma perché ho
capito che Susan sapeva che erano giunti gli ultimi istanti, e si è avvinghiata a me quasi per non lasciare
che la vita le scappasse via.
I malati lo sentono quando stanno morendo, e noi molto spesso siamo
troppo distratti per comprenderli.
L’altra grande lezione ricevuta dal povero Bernard è stata una nuova
presa di coscienza che non siamo onnipotenti.
Abbiamo davvero fatto tutto quello che potevamo ma, onestamente, non
abbiamo capito niente. Eravamo in contatto internet con i professori della
scuola di Medicina Tropicale di Anversa; abbiamo usufruito del teleconsulto, ma
in fin dei conti tutti provavano solo ad indovinare. E poi ci mancano così
tanti mezzi qui in Africa. Se domandi aiuto in Europa ti chiedono di fare
Risonanza, e cose del genere che noi qui neppure possiamo sognarci.
E’ molto dura per un medico ammetterlo, ma casi come quello di Bernard
ci aiutano a ridimensionarci, ci indicano chiaramente i limiti della nostra
conoscenza e della nostra professionalità; diventano scuola di umiltà.
Ripenso con tristezza ad un Professore di Medicina Tropicale di Anversa
che diceva, forse un po’ cinicamente, che per imparare bisogna sempre passare
sopra qualche cadavere. Questa affermazione sembra terribile, ma quanto mai
veritiera. Una persona si forma soprattutto attraverso brucianti errori, che
rimangono così impressi nella mente da non essere più ripetuti.
Purtroppo in Medicina gli sbagli non si riparano facilmente, e a volte
conducono addirittura alla morte.
Quando un paziente muore è sempre un’occasione di crisi per me e per i volontari
che lavorano a Chaaria. Ci si chiede dove abbiamo sbagliato, che cosa potevamo
fare di più o meglio.
Si pensa spesso che un paziente ricoverato in Italia in rianimazione
avrebbe potuto ricevere di più, e forse avrebbe potuto essere salvato. D’altra
parte ci si consola dicendo a se stessi che facciamo già tanto e che, pensando
a certi dispensari dove non si esegue neppure l’esame della malaria, il nostro
è già un livello diagnostico-terapeutico notevole.
Comunque è vero che mancano così tanti strumenti che spesso si brancola
nel buio, si fanno ipotesi un po’ campate in aria, e si corre il rischio di una
pericolosa routine che ci porta a pensare sempre e solo a 4 o 5 malattie, e a
instaurare protocolli di cura sovente miopi e ripetitivi.
Certo, lavorare in Africa insegna molte cose, soprattutto ci rende
consapevoli dei nostri limiti, di quello che non sappiamo, e di quello che
avremmo potuto far meglio. Il rullo compressore della quotidiana fatica
spesso smaschera elementi bui del nostro carattere: a volte si corre tutto
il giorno, cercando di fare del proprio meglio, e poi verso sera, quando le
energie sono ormai “in riserva”, si perde il controllo, si diventa nervosi e ci
si scarica contro un paziente che ha il solo torto di essere capitato sotto le nostre
grinfie nel momento meno opportuno. Anche questi sono comunque momenti utili:
all’inizio ci si tormenta nel senso di colpa, si vorrebbe richiamare indietro
il malcapitato che invece è già tornato a casa “con la coda tra le gambe”; si
corre il rischio dello scoraggiamento, pensando di aver rovinato in un momento
quanto costruito durante una faticosa giornata di servizio e di donazione. Poi
però la pace del cuore ritorna, e si accetta il fatto che non siamo perfetti ed
abbiamo bisogno ogni giorno della misericordia di Dio.
Dio sceglie gente imperfetta e limitata per portare il suo messaggio di
liberazione; ci vuole bene e ci accetta così come siamo, e desidera da noi solo
lo sforzo per fare del nostro meglio. Poi tutto il resto lo porta a compimento
Lui. Noi siamo degli strumenti molto imperfetti della sua Provvidenza, e la
presa di coscienza di questa nostra condizione ci aiuta ad andare avanti,
resistendo sia alla tentazione dello scoraggiamento, sia a quella di sentirci
superuomini capaci di risolvere tutti i problemi.
Ciao.
Fr Beppe Gaido
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