mercoledì 10 aprile 2013

Generatore e chiamate notturne


Sto facendo un  brutto sogno che non ricordo. Cio’ di cui conservo la percezione e’ che si trattava di una scena concitata e ansiogena. E’ gia’ passata la mezzanotte, e sto passando attraverso le prime fasi REM della notte che mi auguro calma e riposante.
Ed invece il cicalino gracchia ripetutamente. Io mi muovo come uno zombi, facendo fatica, per qualche minuto, a capire che stavo sognando e che ora mi trovo nella mia camera alla ricerca disperata dell’abat jour. Finalmente lo trovo, ma il pulsante non da’ alcun segnale di vita: “ah gia’, il black out!”. Non e’ un’operazione semplice neppure raggiungere il cercapersone, ma lo identifico sia grazie alla posizione familiare sul comodino, sia sotto la guida della piccola lucina rossa che lampeggia su di esso. “C’e’ una mamma HIV in travaglio. Bisogna cesarizzarla subito”, mi urla Evanjeline dal ricevitore.
“Ma non ce la fa a partorire da sola?”... provo ad accennare, in un atto di tenue autodifesa.
“No! La donna e’ stata informata che il taglio cesareo garantisce piu’ certezze sul fatto che il figlio non sara’ contagiato”.





“Okay, ho gia’ capito che anche stanotte si balla”.
Chiamo quindi Giancarlo con lo stesso cicalino, e mi preparo a scendere in ospedale. Ma ecco che si presentano nuovi ed inaspettati problemi. Fuori non c’e’ la luna e ci circonda il buio assoluto. Tento di cercare le ciabatte, ma non e’ un’impresa facile. “Dove sara’ la mia pila?”. A tentoni arrivo al tavolo, che setaccio palpando qua e la’, finche’ la trovo. Esco di camera, ma e’ davvero tutto nero. Quando e’ buio, e’ buio davvero in Africa!
Il cielo invece e’ trapuntato di stelle. Sono miliardi sulle nostre teste: davvero sempre uno spettacolo mozzafiato. Passo attorno al centro dei Buoni Figli, completamente avvolto nelle tenebre. Li sento respirare pesantemente nel sonno, o emettere saltuariamente i loro gridi cadenzati.
L’ospedale non appare quella cattedrale di luci al neon, che mi accoglie di solito, quando lo raggiungo di notte per una emergenza. Dalle finestre si scorgono appena i fiochi riflessi delle luci dei pannelli solari.
Arrivo in dispensario, che invece ha una vaga luminosita’ garantita dai pannelli solari, inquanto gli ambienti sono piu’ piccoli. In sala parto, essendo un ambiente ristretto, ci si vede quasi bene con il neon del pannello.
Dopo aver visitato la mamma ed essermi assicurato che era stata preparata per l’intervento, sono andato ad accendere il generatore.
Rachel ha ormai sistemato la donna sul lettino e mi offre gli strumenti per la spinale. Mentre mi metto i guanti, guardo con apprensione alla marcata scoliosi di quella schiena. “Che Dio ce la mandi buona per questa puntura lombare... speriamo di non doverla bucare tante volte, sia per non farla soffrire troppo, sia perche’ e’ anche sieropositiva”.
Come sempre pero’, il Signore lavora con noi e tutto procede per il meglio: malata bravissima, “bambinone” bellissimo, e nessuna complicazione.
Dopo la chirurgia, aziono nuovamente la chiavetta ed il generatore torna a tacere; la vita notturna riprende quindi in un clima di semi oscurita’: Susan sutura una episiotomia alla luce dei pannelli, che per fortuna sono potenti abbastanza da supportare anche l’aspiratore per le secrezioni del neonato. Io e Giacarlo salutiamo e ci facciamo strada nel profondo nero della notte con le nostre torce tascabili. “Che cielo incredibile... certo che una scena cosi’ ripaga anche del fatto che sono quasi le due”.

Fr Beppe


PS: sfortunatamente la situazione elettricita’ sembra non trovare soluzione da vari giorni, ed anche oggi, dopo varie supervisioni dei tecnici, siamo ancora in generatore. Si tratta di un problema che colpisce un’area di non piu’ di quattro chilometri... ma purtroppo ci siamo in mezzo.
Di notte stiamo in solar e di giorno alterniamo i due generatori.
Siamo in questa situazione da moltissimi giorni, e lo scoraggiamento fa capolino.

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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