mercoledì 24 aprile 2013

La luna è piena



Che bella la notte anche stasera. Sembra giorno. La luce lunare e’ cosi’ intensa che vedo la mia ombra e potrei quasi leggere un libro. Non si scorgono le stelle perche’ il bagliore che emana da quel disco cosi’ affascinante e’ troppo forte. Cammino pian piano lungo il muro esterno dei “Buoni Figli”. Il mio sguardo si perde verso la shamba: da questa posizione sembra di essere in una foresta dove alberi di papaya e di banana si rincorrono. 


 

Pare di trovarsi in mezzo al nulla: nessuna illuminazione artificiale, non rumore di automezzi o di attivita’ industriale. Invece il sibilo acuto dei grilli e’ fortissimo, mentre da lontano si ode il gracchiare della rane, che normalmente sguazzano nelle acque stagnanti del piccolo ruscello che ci separa da Chaaria Market. Sto andando verso l’ospedale con la schiena rotta, perche’ oggi il lunedi’ e’ stato molto pesante. Mi incuriosisce l’abbaiare furioso dei nostri cani, e mi dirigo verso il cancello principale. C’e’ moltissima gente fuori, ed il clima e’ teso. Parlano in un kimeru strano con inflessione Tigania e non capisco nulla. Cerco i watchmen, ma al momento non vedo nessuno in cortile. Mi avvio verso la sala d’attesa e subito il mio sguardo viene attratto da varie strisce di sangue sul pavimento. Le seguo, e penso che mi condurranno verso la sala parto... ma mi sbaglio: infatti mi portano direttamente alla room 8, dove entro con circospezione pensando ad un aborto o ad una forte epistassi.
Invece sulla barella vedo un giovane sulla ventina con varie ferite sulle braccia e sulle coscie. Il sangue scorre abbondante ed il ragazzo e’ terrorizzato. Chiedo immediatamente notizie sull’accaduto, e mi dicono che si e’ trattato di un pazzo che ha accoltellato il malcapitato senza alcuna ragione e senza provocazione. E’ successo poco dopo le 20 sulla strada, a meno di 4 km dall’ospedale. I parenti mi dicono che il crimine e’ stato compiuto da un loro vicino di casa che fuma costantemente “bangh”, cioe’ una droga locale che penso non sia altro che uno dei tanti allucinogeni sul mercato. Mi confidano anche che il malfattore e’ stato catturato e che ora si trova in cella a Giaki.
Quanti casi come questo! A volte fa veramente paura dover uscire dopo il tramonto! Ho un breve flash back, e ricordo che mercoledi’ scorso ho percorso la stessa strada dopo le ore 21, al ritorno da un corso di formazione a Meru. Per fortuna non avevo incontrato nessuno sul mio percorso!
Ora non ci devo pensare perche’ il paziente perde sangue. Non lo conosco e non ho notizie circa il suo stato HIV. Il laboratorio funziona solo per emergenze a quest’ora: decido quindi di agire prendendo tutte le precauzioni possibili, ma rinunciando al desiderio di un test prima dell’intervento.
Ci sono alcune arterie che perdono abbondantemente, ma non e’ difficile clamparle. Con attenzione esamino i movimenti sia della mano che della gamba e con gioia posso dire al paziente di stare tranquillo, perche’ i tendini non sono stati interessati dalla ferita penetrante. Procedo quindi alla sutura, assistito da James ed Antony. Il lavoro scorre senza problemi, e finiamo abbastanza in fretta.
Quando ormai sto mettendo il bendaggio e rassicuro il paziente sul fatto che non avra’ alcun problema residuo sul movimento e sulla funzionalita’ degli arti, egli mi chiede a bruciapelo: “potrei essermi preso l’AIDS da questo assalto?”.
“Perche’ mi chiedi questo?”, gli rispondo sorpreso.
“Se e’ un fuori-di-testa, potrebbe aver malmenato qualcun altro appena prima, ed io potrei essere stato ferito da una lama ancora sporca di sangue fresco”.
“la cosa e’ tecnicamente possibile - gli rispondo io – anche se onestamente molto improbabile, in quanto il virus non soppravvive piu’ di 20 minuti al di fuori dell’organismo umano”.
“E allora come faccio ad esserne sicuro?”, incalza ancora.
Io pero’ decido di attenermi ai protocolli internazionali. Siccome non ci sono altre denunce di ferite da pugnale nel circondario per il giorno corrente, rassicuro nuovamente il paziente e non gli propongo alcuna profilassi HIV. Gli do un po’ di valium, insieme agli antidolorifici, agli antibiotici e al richiamo antitetanico, sperando che, dopo una notte tranquilla, la sua mente si liberi dal fantasma dell’HIV.
Capisco comunque che deve essere una esperienza psicologicamente devastante quella di essere attaccato con un coltello da uno sconosciuto che appare di colpo dalle tenebre che ti circondano.
Il fatto capitato questa sera e’ certamente dovuto al grande abuso di sostanze piu’ o meno stupefacenti nei dintorni di Chaaria. Questo e’ un campo in cui certo dovremo pensare di far qualcosa in futuro: convincere i giovani a non farsi friggere il cervello da droghe o bevande locali, che spesso creano danni irreversibili.
E’ ancora fresca nella mia memoria la storia di Stephen che e’ diventato cieco e paralizzato dopo aver bevuto birra tradizionale che conteneva metanolo. Era ricoverato da noi per riabilitazione, ma non ce l’ha fatta a superare lo shock psicologico, e pian piano si e’ spento come una candela, probabilmente ucciso non dall’intossicazione, ma dalla depressione che la sua situazione gli aveva creato.
Dobbiamo veramente provare ad agire con opere di sensibilizzazione e con momenti di formazione, al fine di porre un argine alla silente epidemia delle tossicodipendeze, che qui sono diverse dall’ Italia, ma i cui effetti sono devastanti allo stesso modo.
Ora pero’ sono assonnato e saluto gli infermieri, chiedendo loro di non chiamarmi durante la notte, in quanto sono troppo stanco. So comunque che e’ una battuta ironica, perche’ le urgenze non dipendono certo da loro!
Mentre cammino verso la comunita’ e passo con il fiato sospeso tra le papaye, guardando la luna piena che ancora troneggia nel cielo, purtroppo sento il gracchiare del cicalino che nuovamente si mette a protestare. “Pronto, qual e’ il problema adesso? Ero li’ 5 minuti fa, ed era tutto tranquillo!”.
“ Sorry, doctor – mi dice il timido James – ma qui abbiamo un caso di avvelenamento. Vieni ad impostare la terapia per piacere, mentre noi iniziamo la lavanda gastrica”.
Faccio dietrofront e mi dirigo all’outpatients trascinando i piedi. La room 9 esala un puzzo insopportabile di colla: e’ evidente che si tratta di un erbicida, uno di quelli che si usano per le coltivazioni di tabacco o di cotone. Sulla barella una ragazza giovanissima. Mi dicono che ha 16 anni. In piedi davanti a lei due genitori anziani e dai vestiti stracciati che la guardano con disperazione. La giovane e’ in coma. Noi facciamo tutto quello che sappiamo, e cerchiamo di stabilizzare la paziente, che in effetti, dopo la lavanda gastrica, inizia a guardarsi in giro e risponde con un cenno della voce alle nostre domande.
I genitori non sanno perche’ lo ha fatto. Non si danno pace. Era una ragazza come tante, non ricca, ma nemmeno ridotta alla fame. Andava alla secondary school. Che mistero il cuore umano! Perche’ cercare di togliersi la vita quando si e’ ancora cosi’ giovani con il futuro ancora tutto da impostare?
Pensavo che il suicidio fosse retaggio unicamente delle societa’ benestanti, ed invece quanti ne ho visti da quando sono a Chaaria. Non riesco a capire. Io non ho mai pensato di uccidermi, anche se spesso ho attraversato momenti molto difficile. Sara’ forse una delusione amorosa, o un grave litigio con i genitori, o una gravidanza non voluta?
Ora comunque e’ notte fonda, e non riesco a protrarmi in queste domande esistenziali che forse non avranno mai una risposta, perche’ la ragazza si portera’ a casa il suo segreto. Decido di andare a dormire, sperando che non ci siano cesarei di notte. Cammino lento per lo stesso sentiero, guardo le nuvole che si rincorrono, ed ascolto il canto delle cicale. Che bella la notte a Chaaria, nonostante tutti i problemi che qui la vita ci presenta. La calma notturna riempie il cuore di pace e mi aiuta a prendere sonno, e a rinfrancare le mie forze, per riprendere una nuova battaglia domani mattina.
Ciao. 

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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