domenica 1 dicembre 2013

La mia prima malata di AIDS a Chaaria


Si chiamava Florence. Era il 1998 quando venne da noi con chiari segni di AIDS: era magrissima, aveva diarrea continua e non poteva mangiare a causa del mughetto che le occupava tutto il cavo orale. 
Per molto tempo le offrimmo terapia ospedaliera diurna: andavamo a prenderla al mattino nella sua capanna di paglia e legno, dove la trovavamo tutta sporca di diarrea; la pulivamo e poi la portavamo in dispensario dove iniziavamo le flebo e le altre terapie endovenose. Alla sera la riportavamo a casa. 
Quando Florence fu totalmente incapace di camminare (non avevamo farmaci antiretrovirali) ci chiese di essere trasferita in un ospedale più grande, perché a lei sembrava di essere troppo grave per un piccolo dispensario come il nostro. 
La accontentammo a malincuore perché sapevamo benissimo che là non sarebbe migliorata. Fu Maurizio a portarla: arrivato in ospedale gli fu detto che avrebbe dovuto portare lui stesso la malata a letto in quanto era sieropositiva. Maurizio dovette anche comprare una coperta e dei guanti per gli infermieri.




Due giorni dopo fu ancora Maurizio ad andare a trovarla. Con sua sorpresa il letto era vuoto: chiese con apprensione alle infermiere (riunite attorno ad un tavolo a chiacchierare) dove fosse la paziente: la risposta fu stupefacente: ”Non lo sappiamo. 
Forse è in cortile che passeggia”. 
Maurizio rispose che la paziente non camminava da settimane, ma le infermiere continuarono i loro discorsi senza scomodarsi oltre. Maurizio si avvicinò al letto e lì si rese conto della terribile realtà: Florence era per terra, rigida e fredda. Era caduta dal letto tentando di prendersi il piatto del cibo che era stato deposto sul pavimento dagli inservienti. Era morta e nessuno se ne era accorto. Da quel momento decidemmo che i pazienti con AIDS sarebbero stati ricoverati nel nostro piccolo dispensario, che comunque sarebbe stato sempre meglio di quello che era capitato a Florence.

Quanti volti mi passano davanti se penso ai malati di AIDS, che ricoveravamo quando in stato terminale, ed accompagnavamo fino al momento della morte.
Il nostro dramma era la totale assenza di farmaci antiretrovirali, per cui davvero non avevamo nessuna terapia al di fuori di quella di Madre Teresa di Calcutta: l’amore e la dedizione.
Ora fortunatamente possiamo fare molto di più per loro, come ho cercato di spiegare nel post di ieri.
I malati di AIDS sono al centro del mio cuore, perchè sono abbandonati, ostracizzati, colpevolizzati. Proprio per questo stigma essi sono così importanti nel nostro servizio e nella nostra spiritualità di figli di San Giuseppe Cottolengo.



Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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