mercoledì 26 febbraio 2014

Falso allarme

Sono le 3.15 del mattino di domenica scorsa, ed il cicalino suona con insistenza. Mi viene un accidente perchè è la seconda notte di fila che mi chiamano e sono davvero stanco.
Questa volta al walky-talky non dicono subito la parola magica: “cesareo”; la spiegazione è più lunga: parlano infatti di una persona con addome acuto.
Mi avvio in ospedale sonnolento e preoccupato: se è davvero un addome acuto, devo svegliare Jesse perchè sicuramente bisogna intubare il paziente, e non posso gestire la situazione senza anestesista; e poi devo ovviamente chiamare anche Makena perchè un’occlusione od una perforazione intestinale non sono certo situazioni che posso gestire con lo staff della notte.
Arrivato in ospedale mi viene detto che si tratta di una ragazza di 16 anni, e questo aumenta lo spettro delle ipotesi diagnostiche: si potrebbe trattare di una gravidanza extrauterina.



Scoprendo la pancia della giovane mi rendo conto della ragione che ha reso nervosi gli infermieri del turno di notte: la malata ha una lunga cicatrice sull’addome. Le chiedo di che cosa si tratti, e la sua risposta mi aiuta a riconoscerla: è un caso di violenza in cui la nostra azione era stata determinante! Era stata accoltellata da un ubriaco ed avevamo dovuto fare delle anastomosi intestinali circa due mesi fa.
La pancia però al momento non sembra distesa, anche se la ragazza piange di dolore.
Le metto con cautela una mano sul ventre e mi rendo conto che non c’è alcuna rigidità: l’addome è ragionevolmente trattabile e non c’è difesa. Il punto appendicolare è negativo e non mi pare di apprezzare alcun segno di peritonite.
L’anamnesi mi conferma che la donna va di corpo normalmente anche se ha vomito; inoltre urina senza problemi.
A questo punto mi verrebbe voglia di classificare la paziente come psicosomatica, ma la cicatrice e la possibilità di aderenze mi rendono prudente.
Faccio a questo punto la domanda più importante e chiedo alla ragazza la data dell’ultima mestruazione: il giorno esatto non se lo ricorda, ma sa che ha un’amenorrea sin dall’inizio di ottobre.
“Non può essere un’ectopica perchè di solito questa patologia causa rottura ed emoperitoneo entro le otto settimane di gravidanza, e non oltre”.
Per sicurezza faccio comunque l’ecografia e la ragione del dolore mi appare davanti agli occhi in tutta la sua evidenza e semplicità.
Non c’è bisogno di chiamare Jesse o Makena, e non andremo neppure in sala!
L’eco mi mostra infatti di un piccolo feto di circa 16 settimane di età gestazionale. La gravidanza è endouterina; la placenta è inserita regolarmente sul fondo; il liquido amniotico è regolare, e la cervice appare chiusa e lunga.
La ragazza ha quindi delle contrazioni pretermine.
Le prescrivo la terapia seguendo il protocollo per la minaccia d’aborto; richiedo un esame della malaria (che dalle nostre parti è la causa principale dei parti prematuri), e ritorno a letto verso le ore 4.45.
Naturalmente, continuo a rigirarmi ed a far la guerra con il cuscino fin verso le 6.15, ora in cui inesorabile suona la sveglia e mi obbliga ad alzarmi con gli occhi gonfi e la testa confusa.
E’  stato un falso allarme: i dolori erano reali, ma dovuti alle contrazioni uterine, e non ad un addome acuto. Certo la cicatrice ha in qualche modo sviato l’attenzone dei nostri infermieri. Anche il vomito (legato anch’esso alla gravidanza) li ha confusi. Essi inoltre hanno dimenticato la domanda più importanteda fare quando si ha di fronte una donna in età fertile, e cioè la data dell’ultima mestruazione.
E’ stato comunque corretto che mi abbiano chiamato, al fine di escludere subito una complicazione chirurgica che avrebbe richiesto un intervento urgente anche di notte.
Pure nel caso di stanotte vale quanto spesso dico a tutti i volontari che vengono ad aiutarci a Chaaria: “per noi è necessario pensare che tutte le donne sono gravide, a meno che non ne dimostriamo il contrario”.
Tale assioma ci aiuta sempre tanto ad evitare farmaci potenzialmente pericolosi,  ed a non “mancare” diagnosi pericolose per la vita dei pazienti.


Fr Beppe 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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