giovedì 25 settembre 2014

Un altro angioletto


“Ho un bambino scioccato a cui non riesco a prendere una vena perchè i vasi sono tutti collassati”
“Chiamiamo Jesse che è sicuramente il più bravo”
Mentre lui continua ad armeggiare i suoi aghi cannula nella disperata ricerca di un accesso, io provo a rendermi conto delle condizioni generali del bimbo appena giunto in ospedale.
Ha vomito e diarrea da un paio di giorni e presenta segni di importante disidratazione: i suoi occhi sono infossati ed il turgore della sua cute molto ridotto. La diarrea è acquosa e non c’è sangue nelle feci. Invece la febbre è altissima ed il piccolo è sovente scosso da convulsioni febbrili.
Ancor prima di avere un accesso venoso, somministriamo una supposta di paracetamolo al paziente per abbassargli la temperatura e controllare gli attacchi comiziali.
Intanto il team del laboratorio ci informa che il bimbo è ipoglicemico ed ha un test positivo per la malaria.
L’auscultazione del torace è paurosa: sembra che si tratti di edema polmonare. E’ una complicazione frequente nella malaria complicata: i polmoni si riempiono d’acqua ed il bambino non riesce a respirare.
 
Intanto Jesse ce la fa ed abbiamo quindi a disposizione l’accesso giugulare: provvediamo a instaurare ossigenoterapia e cerchiamo di “scaricare” quei polmoni con del diuretico per via endovenosa. Infondiamo glucosio e mettiamo il chinino in vena, insieme ad un antibiotico ad ampio spettro che copra sia i patogeni polmonari che quelli intestinali.
La mamma è contenta di tutto il nostro affannarci e pare del tutto abbandonata e fiduciosa nei nostri confronti: forse pensa che sappiamo fare anche i miracoli.
Purtroppo però le cose prendono una piega differente: il respiro stertoroso diventa un “gasping” sempre più rallentato, la febbre non scende ma va oltre i 40°C.
Proviamo allora con l’adrenalina ed il cortisone, ma il nostro piccola paziente va in Paradiso in pochissimi minuti, lasciandoci come tramortiti.
La mamma, prima fiduciosa ed abbandonata, diventa ora rabbiosa e disperata: urla come una forsennata ed è difficilissimo calmarla. Le sue grida angosciate riempiono l’ospedale per molte ore e non c’è modo di convincerla ad aspettare domattina: lei in questo ospedale non ci vuol più stare per nessun motivo.
Fortunatamente alcuni parenti arrivano poco prima della notte ed insieme a noi prendono la decisione di portarsi a casa quella mamma disperata che oggi ha perso il suo figlio prediletto.
Vedere un bambino che ti scivola via dalle mani è una tremenda sensazione di fallimento che mi devasta e mi deprime oggi come il primo giorno che ero a Chaaria. Alla morte dei bambini non ci si può e non ci si deve abituare. Le grida disperate di una madre poi sono per me come delle coltellate al cuore, che mi feriscono oggi come all’inizio della mia carriera di medico.
Un altro bimbo se n’è andato, un’altra volta siamo stati sconfitti, un’altra volta non siamo riusciti a ridare alla madre il figlio che lei aveva affidato alle nostre cure.
E’ davvero brutto quello che si prova in momenti come quelli vissuti oggi.
Mi fermo un attimo in cappella prima di spegnere il generatore che romba da stamattina presto, ed offro al Signore questo nuovo angioletto, mentre imploro la pace del cuore per quella donna che stasera se n’è andata in preda ad una cupa disperazione.
Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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