martedì 7 ottobre 2014

Gladys


Sto lavorando in ambulatorio e mancano pochi minuti all'inizio della mastectomia in sala. Siccome so che l'intubazione della paziente e la preparazione del campo operatorio prenderanno all'incirca 15 minuti, dico a Mama-Sharon di chiamare una paziente esterna per ecografia ostetrica: l'eco ostetrica è la scelta migliore nei casi in cui hai i minuti contati, perchè normalmente la esegui, scrivi il referto, dici due parole di felicitazioni ed incoraggiamento alla mammina, e poi la rispedisci in sala parto o nella clinica prenatale dove un'ostetrica continuerà a prendersi cura di lei.
Con mia sorpresa però, la mia assistente mi informa che la donna è in carrozzina e non può camminare: io penso subito ad una gravida in avanzata fase di travaglio, magari prossima al parto.
Apro la porta dello studio ed invece mi ritrovo davanti una povera creatura gravemente handicappata sia mentalmente che fisicamente.
E' tutta storpia e contratta sulla sedia a rotelle dell'ospedale; è chiaramente microcefala, ha i capelli cortissimi, e presenta tipici caratteri somatici di ritardo intellettivo grave. E' accompagnata da una mamma anziana ed estremamente affettuosa nei suoi confronti. Appena mi vede, Gladys si mette a piangere disperata... evidentemente non ne vede tante di facce bianche dalle sue parti.



Chiedo alla genitrice da dove vengono: "Da Thangatha", è la risposta che quasi mi aspettavo. Quello è un posto sperdutissimo, a più di 50 chilometri di strada terribile, vicino al Parco Nazionale del Meru; la gente laggiù è poverissima, e raramente è andata a scuola.
Solleviamo Gladys di peso e la depositiamo delicatamente sulla barella. Lei si arrotola però in posizione fetale e non c'è verso di farla distendere per l'ecografia. Piange e non vuole farsi toccare. Ci vuole la tenerezza della sua mamma a convincerla poco alla volta a rilassarsi ed a permetterci lavorare sul suo pancino.
Gli ultrasuoni confermano la gravidanza.
Si tratta di un feto normale, in posizione podalica. Il battito cardiaco è buono e non rilevo alcuna anormalità nella gestazione.
Non resisto alla tentazione e chiedo a sua madre se per caso conosce il genitore di quel bambino.
Lei tristemente mi fa segno di no con la testa: "ovviamente" peso io ad alta voce. Non trovo il coraggio di infierire ancora con altre domande all'anziana signora.
Li lascio andare con il loro referto ecografico: volevano solo quello da noi perché nella piccola maternità governativa del loro villaggio, l'infermiera aveva detto che alla visita non sentiva il cranio del feto: "quindi il figlio è normale; ce l'ha la testa", ripete la mamma di Gladys quasi tra sè e sè.
In qualche modo l'anziana signora riesce a posizionare la figlia tra il conducente e lei su un mototaxi che le sta aspettando e con cui già hanno fatto il viaggio verso Chaaria. Davanti a loro ci sono circa tre ore di sterrato molto sconnesso e di tanta polvere. Li vedo partire e sparire quasi subito in direzione Giaki.
Non posso però resistere ai sentimenti che mi ribollono dentro,e, proprio quando dalla sala mi chiamano per l'operazione, io chiedo a Mama Sharon con sdegno: "secondo te, un uomo che approfitta sessualmente di una creatura tanto indifesa e malformata possiamo ancora definirlo essere umano e lo dovremmo chiamare bestia?"
Mama Sharon sospira e non risponde; mi offre invece berrettino e maschera, e mi sussurra: "andiamo per l'intervento. Ci stanno aspettando".


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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