mercoledì 15 ottobre 2014

La sfortuna si accanisce sulle stesse persone

Visito Idah per un dolore addominale e noto che ha due cicatrici sulla pancia: una verticale ed un’altra orizzontale.
La faccia di quella paziente non mi suggerisce niente ma lei mi guarda con occhi amichevoli e dice di conoscermi.
Dopo i convenevoli di benvenuto le chiedo di darmi notizie delle precedenti operazioni, in modo da avere indicazioni sulla possibile genesi dei dolori addominali.
Onestamente penso che potrebbe trattarsi di aderenze intestinali post-operatorie, considerate le cicatrici che noto su quell’addome.
La risposta di Idah mi prende un po’ in contropiede, perche mi dice: “davvero non ti ricordi di me? Mi hai operato tu in entrambe le occasioni!”
Mi giustifico dicendo che per me è difficile ricordare le centinaia di malati che mi passano per le mani qui a Chaaria giorno dopo giorno.
Lei mi guarda con occhio intelligente e certamente comprende che per me è difficile rammentare: “nel 2011 sono venuta qui per un cesareo, ma purtroppo era troppo tardi e la mia situazione era già complicata una tremenda rottura d’utero. Il mio piccolo era morto nel mio grembo e tu non sei riuscito a salvare il mio utero che era ormai tutto distrutto. Ricordo che ero sveglia perchè avevi scelto l’anestesia spinale, e tra le lacrime ho acconsentito all’isterectomia. Avevo solo 27 anni e quella era la mia prima gravidanza. 



Poi nel 2012 sono tornata a Chaaria con la pancia tutta gonfia; avevo tanto male e non riuscivo ad andare di corpo da una settimana. Sei stato ancora tu a dirmi che il mio intestino si era attorcigliato causandomi una occlusione. Poi ricordo che in sala tu sei stato l’ultima faccia che ho visto quando mi avete messo quella maschera con i gas per farmi dormire. Al risveglio mi avevi poi detto che avevate dovuto togliermi mezzo metro di intestino che era già morto a causa dei quell’attorcigliamento”.
“Adesso facciamo l’ecografia” le ho risposto “e speriamo che il tuo intestino non si sia attorcigliato un’altra volta. Sono però fiducioso, perchè vai in bagno normalmente e la tua pancia è piatta”.
Ma, appena metto la sonda sulla pancia, mi salta agli occhi con evidenza implacabile la causa del dolore addominale di Idah: nel lobo destro del fegato ha una massa enorme, solida e scura, tonda come un grosso pompelmo. Non ho  grossi dubbi sulla diagnosi: purtroppo si tratta quasi certamente di un carcinoma epatocellulare.
La sfortuna sta davvero perseguitando Idah che non solo è stata resa sterile e senza figli da una rottura d’utero; non solo ha perso un bel pezzo di intestino a causa di aderenze causate dalla prima operazione, ma ora sta per morire di tumore all’età di 30 anni.
Dopo l’ecografia arriva la domanda che non avrei voluto sentire: “hai trovato la causa? Di cosa di tratta?”
Di getto rispondo: “Il tuo problema è ora nel fegato e faremo una biospia per capire sia di cosa si tratta e sia ciò che si potrà fare per aiutarti”: mentre parlo però mi sento già una morsa allo stomaco ed i sensi di colpa assalirmi a ritmo crescente, perchè lo so che Idah non avrà le risorse economiche per affrontare le spese che una terapia oncologica a Nairobi comporterebbe.
Trent’anni sono proprio pochi per avere un tumore del fegato di quelle dimensioni!
Come sempre mi viene da pensare che “la fortuna è cieca”, ma la sfortuna ci vede benissimo e spesso si accanisce senza misericordia sulla stessa persona.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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