lunedì 6 ottobre 2014

Sentirsi utile

“Puoi far l’anestesia al bambino. Io arrivo tra un attimo per quella cisti del collo. Faccio solo un’ecografia urgente mentre tu intubi”
Sto visitando una donna per un’eco ostetrica e sento in lontananza il suono inconfondibile di una sirena. “Speriamo che sia la polizia e non un’ambulanza”, penso tra me e me, mentre faccio scorrere la sonda sulla pancia di quella donna.

Invece il suono della sirena continua ad avvicinarsi e si arresta proprio davanti alle mie finestre. Ancora provo ad illudermi che non sia un problema chirurgico e che quindi in qualche modo io possa scaricare l’urgenza ad un clinical officer.
Termino la mia eco e fortunatamente mamma e feto stanno bene. 
In quel momento suona l’interfono e mi chiamano in sala per l’operazione, in quanto il bambino è già addormentato. 
Esco dal mio studio per andare inm sala, ma vedo la barella e lo staff dell’altro ospedale davanti alla sala parto. 


Susan non aspetta che io chieda e mi viene incontro dicendo: “trasferimento da Marimanti per cesareo. Il feto è in posizione podalica”. 
“Cominciate a preparare la mamma per la sala. Io vado di corsa e faccio l’intervento di cisti del collo il più velocemente possibile, in modo da poter entrare poi per il cesareo”. 
Oggi abbiamo un solo anestesista ed anche io sono solo come chirurgo, per cui non ci sono alternative. 
Sto entrando nel nuovo blocco operatorio e già sento l’interfono suonare di nuovo. Mi affaccio e sto per iniziare a lavarmi quando vedo Marcella venirmi incontro al lavandino dicendo: “Susan dice di andare urgentemente in sala parto e di aiutarle perchè la donna sta partorendo”. 
Guardo Jesse per un attimo ma non dico niente perchè non ci sono alternative. Lui continuerà a seguire l’anestesia generale in mia assenza, ed io corro velocissimo verso la sala parto, sperando di cavarmela in fretta per poi tornare dal bambino già anestetizzato. 
Arrivo in maternità e trovo tutti in agitazione. Il podice del bimbo è fuori e la donna si dimena in preda alle doglie. 
Con calma compio tutte le manovre necessarie al parto podalico; va tutto bene fino all’estrazione della testa: corpo e spalle vengono alla luce senza troppe difficoltà. Ma poi capita quello che tutti temiamo in questi casi: la testa si inchioda al canale del parto e sembra non volerne sapere di uscire. Sono attimi tremendi in cui ci tremano le gambe mentre i nostri sforzi per estrarre quella testolina ci fanno temere addirittura la decapitazione. 
Poi però di colpo il bimbo viene fuori: è bianco come un cencio e pare morto. Urlo per aiuto e chiedo gli strumenti della rianimazione neonatale. 
Nuovamente viviamo attimi di terrore, mentre facciamo massaggio cardiaco e respirazione con ambu. Ma quel bimbo è forte; dapprima sono solo sospiri superficiali, poi diventano respiri più lunghi anche se irregolari, e quindi arriva quello che tutti noi aspettavamo: un pianto energico e ristoratore sia per noi che per la mamma che ci osserva dalla barella a due passi dalle nostre spalle. 
“Adesso posso andare. Al resto ci potete pensare voi”, dico alle mie infermiere. 
Tutte sono eccitate e mi ripetono continuamente “thank you, thank you”. 
Mi rendo conto che sono tutto sporco di meconio: nella tensione del momento non mi ero neppure accorto di tutti quegli schizzi. Velocemente mi cambio la divisa e vado nella sala nuova. 
Jesse è calmo ed assorto come al solito. 
Makena e le altre sono già in posizione di combattimento. 
La cisti del collo viene via senza particolari problemi, ed a fine intervento il bambino si sveglia senza difficoltà dopo l’estubazione. 
E’ stato un momento veramente adrenalinico, in cui però il Signore mi ha voluto regalare la sensazione che sono stato obiettivamente utile per salvare una vita. 
Devo ammettere di aver bisogno di queste carezze psicologiche e di questi incoraggiamenti, per controbilanciare gli attimi di scoramento che a volte mi assalgono quando invece qualcosa va male e la morte ha il sopravvento. 

Fr. Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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